Il Salario Minimo (così non) serve. Il paradosso tutto italiano
In Italia vi è un'emergenza (semi) sommersa, quella legata ai lavoratori poveri, ossia coloro che, nonostante lavorino regolarmente, hanno una paga oraria tale da non garantire un'esistenza dignitosa. Ma la bagarre politica sul salario minimo lo rende un rischio: nel nostro Paese ideologicamente viziato si corre il rischio di utilizzare il salario minimo come mera alternativa alla contrattazione collettiva.
Salario minimo sì, salario minimo no. Al di là delle posizioni da scacchiere politico – che spesso piegano la questione a mero esercizio retorico di rappresentazione di ideologie a favore o contro un elemento dirimente della vita dei cittadini – occorre riconoscere che in Italia il problema legato agli stipendi esiste. E bisogna far qualcosa, prima che sia troppo tardi e la frattura sociale diventi irreparabile.
Il quadro generale: gli stipendi in Italia, l’inflazione e la necessità di un salario minimo
Andiamo con ordine, provando a coniugare le esigenze di sintesi con la volontà di tracciare un quadro della situazione più o meno completo (il lettore perdonerà i rimandi ad articoli di approfondimento contenenti dati e spiegazioni maggiori dei fenomeni richiamati nel corrente testo).
Perché è importante parlare di salario minimo (da non confondere con il reddito minimo), la “questione” che spunta ogni tanto fra le pagine della cronaca e fra i banchi della politica? Perché in Italia vi è un’emergenza sociale semi sommersa, quella connessa ai lavoratori poveri (working poor, in inglese) e della frattura sociale che inizia a serpeggiare fra le fasce più deboli (e medie) della popolazione.
Parliamo, in altri termini, di tutte quelle situazioni in cui malgrado il cittadino lavori in modo regolare e contrattualizzato, non riesce comunque ad arrivare alla fine del mese perché la sua paga oraria è troppo bassa per garantire, a sé e alla sua famiglia, un’esistenza dignitosa (soglia di povertà).
Infatti, in Italia il problema dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi quotidiani legati semplicemente all’esistenza in vita (dalla spesa alimentare alle bollette, da mutui e prestiti alla benzina) ha un impatto significativo a causa di una tendenza unica nel suo genere: negli ultimi trent’anni, si è verificata una riduzione delle retribuzioni nel nostro Paese, cosa che non si è verificata negli altri paesi dell’area dell’OCSE.
Secondo i dati, infatti, dal 1992 ad oggi, in altre parole, l’Italia ha registrato una diminuzione dei salari del 2,9%, mentre gli altri Paesi hanno mostrato una tendenza opposta. In Polonia, i salari sono aumentati del 96,5%, in Svezia del 63%, in Danimarca del 39%, Francia, Germania e Grecia hanno registrato aumenti superiori al 30%, il Portogallo del 15,6% e anche in Spagna i salari sono aumentati del 6% negli ultimi trent’anni.
Pertanto, a fronte di un ascensore sociale bloccato e di stipendi fermi al palo e non adeguati al costo della vita da circa trent’anni, la spirale inflattiva che stiamo vivendo nell’ultimo biennio, rende ancora più drammatica la situazione: ad erodersi in maniera sensibile e veloce davanti ad un fenomeno inflattivo così rigido è il poterete d’acquisto, in particolare quello dei lavoratori dipendenti che si ritrovano con le stesse buste paghe ma con i prezzi aumentati.
Salario minimo, il “grande escluso” dalle misure per il lavoro
In altre parole, nel Bel Paese il problema dell’inflazione ha un impatto significativo a causa di una tendenza unica nel suo genere: la caratteristica distintiva del nostro sistema economico è proprio la stagnazione delle retribuzioni, che si combina con il fenomeno del lavoro povero. Attualmente, ci sono più di 11 milioni di lavoratori italiani che ricevono uno stipendio inferiore a 10.000 euro all’anno, ma il dato è destinato a crescere.
E’ evidente, dunque, come sussista una questione salariale urgente che deriva da diversi fattori consolidati e convergenti: affrontare una situazione del genere richiede una serie di azioni, tra cui la definizione di un salario minimo, ma con una natura strettamente contrattuale.
Già lo scorso anno, l’Unione Europea ha adottato la direttiva sui salari minimi adeguati nell’Unione Europea, con la finalità di promuovere l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuire al raggiungimento di condizioni di lavoro e di vita dignitose per tutti i dipendenti europei.
“Poiché la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari è uno strumento importante per garantire che i lavoratori possano beneficiare di salari minimi adeguati – spiega l’UE in una nota – la direttiva mira ad estendere la copertura dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva. Ecco perché i colegislatori hanno convenuto che i Paesi dovrebbero promuovere il rafforzamento della capacità delle parti sociali di impegnarsi nella contrattazione collettiva, compresa la protezione dei rappresentanti dei lavoratori”.
Cosa è accaduto in Italia, invece? Abbiamo assistito ad una deflagrazione delle polemiche (in pieno stile italiano, insomma) nel momento in cui, secondo il CNEL, oltre 7 milioni di lavoratori erano coinvolti nel rinnovo dei contratti collettivi. E a quel punto, con il cambio di Governo in corso, le polemiche e le proposte sono state limitate a scontri fra sindacati, o fra politica e sindacati, fra sindacati e Industriali e così via, senza rendere la questione “salario minimo” realmente affrontabile da un punto di vista legislativo e, soprattutto, complessivo.
Le azioni di “correzione” e di aiuto – come ancora oggi quelle previste dalla Legge di Bilancio – si sono risolte in bonus spot e tagli minimi, che si sono rivelate limitate e parziali e nulla hanno fatto per risolvere la stagnazione dei salari.
Infatti, anche in queste ultime settimane, con il Decreto Lavoro sono stati riformati diversi aspetti sul mercato del lavoro, tra cui il taglio al cuneo fiscale per i redditi fino a €35mila e l’utilizzo dei contratti a tempo determinato.
Come detto, nel nostro Paese resta escluso ancora il salario minimo a livello generale, affidato alla negoziazione dei contratti collettivi che, insieme alle misure per far fronte all’inflazione, non sono processi che possono essere affrontati attraverso strumenti singoli: servirebbe una riforma strutturale del mercato del lavoro capace di ristabilire una crescita di competenze, diritti e ricchezza.
Il paradosso del salario minimo in Italia
Non affrontare in modo complessivo la riforma del lavoro – che dovrebbe riguardare tanto gli adeguamenti degli stipendi al costo della vita tanto il taglio netto del costo del lavoro per gli imprenditori, oltre che l’introduzione del salario minimo – è che nel nostro Paese ideologicamente viziato si corre il rischio di utilizzare il salario minimo come mera alternativa alla contrattazione collettiva.
Paradossalmente, mentre nel resto d’Europa (e lo vedremo nel prossimo paragrafo) il salario minimo è considerato un “potenziamento” di quanto già previsto nelle tutele contrattuali (che hanno però un peso minore rispetto al nostro Paese), in Italia il concetto di salario minimo rischia di diventare paradossalmente un’alternativa (e non un miglioramento) rispetto alla contrattazione collettiva qualora si assecondasse (purtroppo, nelle intenzioni dell’attuale Governo) l’unica tendenza favorita da una legge che dovesse stabilire come unico obbligo quello di garantire una soglia minima di retribuzione (e non un miglioramento della vita).
Luigi Sbarra, il segretario generale della Cisl, in un lungo intervento su “Il Riformista” afferma oggi che
“La via è quella dell’estensione, settore per settore, del trattamento economico complessivo dei contratti nazionali maggiormente diffusi e applicati. Non serve una legge sulla rappresentanza: si prendano i dati già in possesso dell’Inps, si indichino i contratti leader e si disponga l’erga omnes. L’alternativa di un quantum orario indifferenziato stabilito direttamente dalla legge determinerebbe uno schiacciamento verso il basso dei salari medi, l’uscita dalle tutele dei CCNL di migliaia di imprese, l’arbitrio di fatto della politica su dinamiche che devono restare flessibili e adattive e ancorate all’autonomia negoziale e contrattuale delle parti sociali”.
Altresì, come ha raccontato Fanpage nelle scorse ore,
per il deputato di Forza Italia Giorgio Mulé “il salario minimo è nemico del lavoro perché mortificante”. Lo ha detto intervenendo alla trasmissione Agorà, su Rai 3, parlando della proposta per cui spingono le opposizioni per aumentare gli stipendi, che sono ormai fermi dagli anni Novanta nonostante il costo della vita sia notevolmente aumentato. “Il salario minimo è il nemico del lavoro, perché è mortificante. Chi guadagna oggi 11 o 12 euro verrà pagato 9 euro”, ha detto.
Come dicevamo in premessa, il salario minimo al momento in Italia resta una questione ideologica, lontana da tanto lavoro povero e precarietà che molti fingono di non vedere.
Il salario minimo nel resto d’Europa: come sono messi gli altri Paesi?
Secondo l’analisi dello studio legale Daverio&Florio, il salario minimo è presente in quasi tutti i Paesi europei, ad eccezione dell’Italia, della Danimarca, dell’Austria, della Finlandia e della Svezia, ma con valori e applicazioni molto differenti. Svezia e Danimarca, così come l’Italia, seguono modelli basati sulla negoziazione dei contratti collettivi e dei livelli salariali da parte dei sindacati.
Entrando nell’analisi, in Germania, il salario minimo è stato introdotto nel 2015 e a fine 2022 è aumentato da €10,45 a €12 euro lordi all’ora, per un totale di €2.080 lordi mensili. Si applica a tutti i dipendenti, con alcune eccezioni, e un ulteriore aumento è in arrivo nel 2024.
In Belgio, sin dal 1975 esiste il reddito minimo mensile medio garantito (Gammi), che in seguito all’ultima indicizzazione del dicembre 2022 ammonta effettivamente a 1.954,99 euro lordi. È rivolto ai dipendenti con un contratto di lavoro dai 18 anni in su e che lavorano a tempo pieno. Anche qui il salario è spesso soggetto a riforme, ed è previsto un aumento di 35 € lordi (soggetto a indicizzazione) il 1° aprile del 2024 e del 2026.
L’Olanda è uno dei Paesi “storici”, con il salario minimo che esiste da ben il 1969. Attualmente il salario minimo mensile ammonta a €1.934,40 lordi grazie al recente aumento del 10,15%. Il salario minimo si applica solo nel caso in cui un dipendente sia assunto con un contratto di lavoro ed è progressivo: dai 15 ai 21 anni aumenta in base all’età, diventando successivamente fisso. Dal 2024, inoltre, l’Olanda introdurrà un salario minimo orario (attualmente è mensile), al fine di renderlo ancora più equo.
In Irlanda il salario minimo nazionale è stabilito dal National Minimum Wage Act 2000 (€11,30/ora lordi e €1.909,70/mese lordi), ma verrà sostituito con il salario di sussistenza a partire dal 2026. Per determinare la cifra, il governo irlandese sta adottando un approccio a soglia fissa del 60% del salario mediano, che si stima comporterà un aumento del reddito da €11,30 a €13,10 € lordi all’ora.
Attualmente hanno diritto al salario minimo i lavoratori a tempo pieno, a tempo parziale, temporanei, occasionali e stagionali di età superiore ai 20 anni. Ai dipendenti di età inferiore ai 20 anni si applicano aliquote salariali minime diverse.
Il primo salario minimo in Spagna (SMI) risale al 1963. Recentemente il salario minimo è aumentato dell’8% rispetto al 2022, frutto di un accordo tra il governo spagnolo e i due sindacati più rappresentativi a livello nazionale (CCOO e UGT). L’importo attuale è di €1.080 al mese lordi ed è determinato su base mensile o giornaliera (€36/giorno lordi), ma con valori inferiori per i lavoratori temporanei, stagionali e domestici.
La Francia è senza dubbio uno dei primi Paesi ad aver introdotto il minimo salariale (attivo dal 1950), valido a tutti i dipendenti che hanno almeno 18 anni, indipendentemente dal contenuto e dalla forma del contratto di lavoro e della retribuzione. Il “salario minimo di crescita interprofessionale” (SMIC) è di €11,52 lordi all’ora, pari a €1.747,20 lordi mensili (per 35 ore), e si rivaluta in base all’aumento dei prezzi e all’aumento del salario medio.