Working poor, quando il lavoro rende poveri
Cosa significa workig poor? Spesso nell’immaginario collettivo la povertà è una conseguenza della mancanza di lavoro. Ma, incrociando i dati sui redditi, sui salari e sull’occupazione, è facile dimostrare che anche chi un lavoro ce l’ha può essere povero.
Sono i working poor, quei lavoratori con una retribuzione così bassa che il loro reddito non supera la soglia della povertà. L’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, definisce questo fenomeno come “in-work poverty” e identifica i working poor come quei lavoratori che hanno avuto un’occupazione per almeno 7 mesi nell’arco dell’anno e un reddito familiare inferiore al 60% della mediana nazionale.
I working poor in Italia
Sulla base dell’indicatore dell’Eurostat, nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani erano nelle condizioni di working poor. Un dato che superava nettamente la media degli stati membri dell’Unione Europea che invece si assestava al 9,2%.
Il ministero del Lavoro italiano, alla fine del 2021, ha commissionato una ricerca ad un gruppo di 8 esperti, coordinati dall’economista Andrea Garnero, per studiare l’entità di questo fenomeno nel nostro Paese. Lo studio è partito da una ridefinizione più dettagliata della figura dei working poor ottenuta incrociando diversi indicatori e dati. Con questi nuovi standard è emerso che in Italia sono 3 milioni i working poor e che il 32,4% dei lavoratori italiani percepisce un salario sotto la soglia di povertà.
Lo stato dell’occupazione in Italia: anche i dati dell’Istat mostrano come l’occupazione in Italia non segue il trend di crescita economica che sta vivendo il nostro Paese. Mentre il Pil cresce del 6,5% l’occupazione aumenta di poco più del 2% e il numero di occupati totali è ancora lontano dai livelli prepandemici, che comunque non erano esaltanti.
Tra novembre e dicembre in Italia si sono persi 24mila posti di lavoro rispetto al mese di ottobre, i nuovi contratti sono per i due terzi a tempo determinato e a bassa retribuzione e rischiano di andare ad allargare il numero di woorking poor. In più di tutti gli stati dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’Italia è l’unico dove il salario medio annuale è diminuito (-2,9%).
In Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%.A questo va aggiunto la marcata frammentazione del mercato del lavoro italiano. Nel 1990 più dell’85% degli occupati in Italia faceva un solo lavoro in un anno. Le cose sono cambiate velocemente e la vita lavorativa degli italiani si è disgregata. Nel 2017 la stessa categoria, infatti, si riduce al 79%. I dati mostrano con estrema chiarezza come il fenomeno dei working poor rischia di trovare un terreno fertile in Italia più che altrove.
Le proposte dei ricercatori
Nel lavoro commissionato dal ministero del Lavoro, i ricercatori non si sono limitati ad inquadrare la questione ma hanno avanzato 5 proposte per contrastare la povertà lavorativa in Italia:
- Una sperimentazione del salario minimo almeno in alcuni settori;
- Un controllo stringente sui dati trasmessi da imprese e lavoratori alle pubbliche amministratori così da rendere più agevole il controllo del rispetto dei minimi salariali;
- Un sostegno per integrare i salari dei working poor
- Incentivi per le aziende che rispettano le norme
- Una rimodulazione dei parametri europei per la misurazione dell’in-work poverty
Il salario minimo
L’Italia è uno dei 6 Paesi tra i 27 stati membri dell’Unione Europea a non aver inserito il salario minimo. Lì dove è stato introdotto, questo strumento, secondo l’ultimo report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha generato un effetto di crescita delle retribuzioni e di riduzione delle diseguaglianze. In Francia il salario minimo è stato introdotto nel 1950 ed è ricalcolato con frequenza annuale in base a diversi fattori che comprendono anche il costo della vita.
In Germania, dove è stato introdotto nel 2015, è fissato a 8,50 euro per ogni ora di lavoro ed è stata approvata una norma per alzarlo a 12 euro. Proprio sulla scorta dei risultati dello studio coordinato da Garnero, il ministro del Lavoro Andrea Orlando si è espresso sulla possibilità di iniziare la sperimentazione del salario minimo. Ma, per ora, questa misura è rimasta fuori dal dibattito politico e parlamentare.
Eppure ad essere a rischio, secondo tutti i dati raccolti, sono proprio i lavoratori più fragili. La forza lavoro dell’economia dei “lavoretti”, la “gig economy”. Partite iva, precari, lavoratori interinali, a contratto, a prestazione. In questo ambiente economico frammentato, diviso e deregolamentato, nel quale la flessibilità troppo spesso si è tradotta non in opportunità ma in precarietà, il fenomeno dei working poor potrebbe assumere dimensioni insostenibili per l’intero sistema economico nazionale.