Ma l’Italia è davvero un Paese per la ricerca?
"Ancora oggi gli investimenti pubblici in R&S per anno in Italia, come è noto, sono significativamente inferiori a quelli degli altri Paesi europei del G8, nonostante l'indiscusso valore dei ricercatori italiani".
Si sente spesso parlare di investimenti per la ricerca, di ricerca e innovazione, di piani per lo sviluppo… ma qual è la situazione “reale” nel Paese e quanto l’Italia riesce a configurarsi come un luogo propenso al ramo R&S? Ne abbiamo parlato con l’Ingegnere Antonio Genovese, Direttore R&S in Fortress Lab Srl, specialista del ramo e osservatore privilegiato di un settore che conosce da più di trent’anni.
Ing. Genovese, quanto realmente è accessibile la ricerca in Italia e che risultati concreti, in termini di innovazione, porta al Paese?
“Chi ha frequentato in questi ultimi decenni il “labirinto” della R&S, ed ha avuto la possibilità di analizzare i risultati e conoscerne i meccanismi di accessibilità, non può non convenire che, a partire dal dopoguerra fino ai giorni nostri, sono ben pochi i conseguimenti basati su idee originali in termini di prodotti e/o tecnologie innovative dei quali il nostro Paese possa vantarsi. Se ciò può avere una spiegazione più o meno giustificabile nel periodo della ricostruzione post bellica, il succedersi nella cosiddetta Prima Repubblica di innumerevoli governi poco inclini e spesso incapaci ad affrontare i temi della R&S, ha scaturito per fini puramente politico-elettorali, un meccanismo ‘perverso’ di distribuzione a pioggia di incentivi per la ricerca, magari a fondo perduto e che in buona parte hanno riguardato, attraverso le varie (discutibili) agenzie territoriali, il Meridione. Naturalmente sovente erano considerate di ricerca attività di natura assolutamente operativa che presentavano un grado di innovazione risibile, talvolta non senza ‘travestimenti’ ad hoc. Nonostante nel 1963 il celeberrimo Manuale di Frascati avesse tentato di chiarire i vari aspetti delle attività che lecitamente potevano essere classificate come di R&S, la situazione nei decenni successivi non sembrò permettere cambiamenti. Mi pare di potere affermare che la conseguenza naturale di tutto ciò, a fronte di significative novità in termini di risultati della ricerca presentate negli anni da molti Paesi (USA, Giappone, Corea, Gran Bretagna, Germania, Francia, Canada, Olanda….), abbia limitato fortemente il nostro Paese, permettendo lo sviluppo ahinoi di un numero esiguo di soluzioni di grande interesse tecnico-scientifico. Tutto ciò nonostante l’indiscusso valore dei ricercatori italiani sempre presenti nelle grandi imprese scientifiche, tuttavia in massima parte promosse in altri Paesi. Nonostante l’enorme spinta popolare, seguita agli anni di tangentopoli con l’insorgere della Seconda Repubblica che lasciava sperare in un rovesciamento dei criteri di incentivazione pubblico-privato per la ricerca, ai giorni nostri non mi sembrano possono essere ascritte evoluzioni rilevanti nella gestione complessiva delle problematiche di R&S nel nostro Paese. Se è vero che da una parte sono stati profusi considerevoli sforzi in termini di normative, accorpamenti di agenzie, riformulazione dei meccanismi di finanziamento e decentralizzazione dei poteri, i risultati non sembrano aver premiato tali sforzi”.
Esistono numerosi fondi e bandi che il Governo, ma spesso anche le Regioni e gli Enti locali mettono a disposizione delle aziende. Ma quanto si investe effettivamente secondo lei in questo settore e che ricaduta hanno gli investimenti?
“A dispetto delle considerazioni per lo più negative di cui abbiamo parlato, c’è da dire che ancora oggi gli investimenti pubblici in R&S per anno in Italia, come è noto, sono significativamente inferiori a quelli degli altri Paesi europei del G8. Tuttavia, oltre alla non abbondanza in termini complessivi delle quote disponibili, la vera criticità che accompagna e favorisce gli scarsi risultati della ricerca, riguarda l’aspetto economico-finanziario che risente del fatto che la gestione dei fondi a diversi livelli (Ministeri, Regioni, Comuni, etc.) è operata da enti la cui situazione disastrata non facilita la disponibilità delle risorse per la ricerca e compromette del tutto la tempestività dell’erogazione dei finanziamenti. Le grandi (e ‘protette’) aziende potendosi permettere business plan meno stringenti, a più largo respiro e che inglobano diverse iniziative, riescono più o meno a far fronte a questo scenario, creando nel tempo un equilibrio tra entrate e uscite, assorbendo così i lead time endemici nella disponibilità dei finanziamenti. Le altre imprese, non di rado, collassano proprio a causa dell’impossibilità di finanziare tempestivamente le attività critiche che determinano il successo dell’impresa. Proprio per queste ragioni, nella maggioranza dei casi, le ricadute degli investimenti spesso non portano a risultati in linea con lo stato dell’arte della tecnologia, sia in termini qualitativi che temporali. Esistono tuttavia, particolarmente nel mercato “non protetto”, splendide eccezioni di imprese che portano avanti con successo iniziative di innovazione attraverso la ricerca, sfruttando da una parte in modo efficace le agevolazioni finanziarie, ma profondendo, dall’altra, un significativo impegno di risorse proprie (economiche ed umane). Ad esempio: nell’azienda dove ho lavorato fino a pochi mesi fa, i risultati delle attività di R&S sono stati sfruttati ben prima dell’erogazione dei co-finanziamenti, completando lo sviluppo di componenti prototipali progressivamente ingegnerizzate ed applicate nel comparto industriale di riferimento”.
L’Italia, rispetto al resto d’Europa, quanto si configura come un Paese attrattivo per la ricerca?
“Abbastanza diversa è la situazione delle altre realtà europee dove si registra generalmente un maggior equilibrio tra sforzo privato e pubblico nella ricerca., con risultati significativamente diversi. Non bisogna trascurare, tuttavia, anche l’eccessiva “burocratizzazione” dei programmi di ricerca comunitari come H2020, la tendenza non sempre giustificata a favorire i paesi di recente integrazione e la necessità non tanto mascherata di appartenenza a lobby (più o meno tecnologiche) talvolta non proprio “benigne” per usare un eufemismo. Eventi fortemente traumatici per l’Europa come la Brexit non sono ovviamente estranei alla situazione di difficoltà nella gestione dei fondi comunitari non solo per la ricerca. La situazione in Italia è paradossale; come è noto, sia per la scarsità di iniziative adeguate da parte delle imprese, sia la colpevole inadeguatezza delle istituzioni preposte nella gestione dei fondi comunitari, non di rado accade di non poter accedere ai finanziamenti per mancanza di proposte. Se l’Italia è un Paese per la Ricerca? Sicuramente lo sono i ricercatori italiani che, come ho detto, non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi europei, ma, come si sa, spesso costretti a trasferirsi all’estero per sfruttare le loro notevoli competenze. L’elevato livello di competenze dei ricercatori italiani rappresenta di sicuro un vanto per le Università del Bel Paese, almeno in termini di adeguatezza dell’offerta formativa. Una tiratina d’orecchie agli accademici ed ai Centri Ricerca occorre tuttavia provare a farla a causa dei contributi non sempre adeguati agli obiettivi alle iniziative di ricerca delle imprese, il che non sempre giustifica, se non per l’aspetto meramente normativo, la loro presenza nei partenariati di Ricerca Industriale”.
Secondo la sua esperienza, come e quanto è cambiato il settore della ricerca e sviluppo negli ultimi 20 anni?
“Come già citato, al di là delle “apparenti” nuove politiche nell’ambito della ricerca e sviluppo portate avanti più o meno apertamente dai recenti governi, non mi pare di scorgere significativi segni di miglioramento relativi alle ricadute dei risultati complessivi della ricerca, il che, a dispetto delle interpretazioni dei numeri dei vari comparti in termini di R&S, non lascerebbero ben sperare nell’efficacia delle misure emanate. Da una parte, è vero, contrariamente a quello che succedeva 20 anni fa, è stata intrapresa una strada che conduce progressivamente a favorire in maggior misura gli strumenti di finanza agevolata (pubblica e privata), piuttosto che alla disponibilità di finanziamenti a fondo perduto. Dall’altra, mi sembra ancora piuttosto lontana la situazione auspicabile del ribaltamento dell’approccio alla ricerca da parte della maggioranza delle imprese; infatti, ancora il mondo delle imprese italiane non ragiona in termini di: “Credo fortemente in un’idea di innovazione dei miei processi/prodotti, cosa può fare la ricerca per me? Quali possono essere i partner tecnologici? Quali possono essere gli strumenti finanziari che mi aiutino nell’impresa? Piuttosto, il ragionamento comune è ancora del tipo: “la Regione ha messo a disposizione un bando per l’acquisizione di fondi per R&S che prevedono l’utilizzo di nuove tecnologie nel campo dell’Intelligenza Artificiale……precipitiamoci tutti a sviluppare la proposta….ma cosa è l’IA e a cosa ci serve? Non lo so ma ci sono i fondi…” Ritornando ai rapporti tra mondo accademico e le imprese, in questi ultimi anni abbiamo assistito al proliferare di realtà miste pubblico-privato (Consorzi di ricerca, Distretti Tecnologici, Innovation Campus, etc.) che a mio parere hanno solo aggiunto confusione ed ulteriormente alzato le barriere all’accesso alla ricerca da parte dell’imprese private, rendendo più esclusivo la possibilità di partecipazione ai bandi pubblici. Si va tuttavia consolidando negli ultimi tempi un aspetto estremamente positivo nel mondo delle imprese italiane che proprio nella ricerca è destinato a favorire la selezione naturale delle iniziative di innovazione con più possibilità di successo. Questo è rappresentato dalle competenze che finalmente risultano essere il fattore determinante per l’istaurarsi di un circolo virtuoso impresa – innovazione – ricerca.”