Editoriale

Il dramma “informatizzazione” dei docenti italiani

Corsi su corsi pensati appositamente "per detestare i PC", trasformando l'apprendimento informatico in una serie di istruzioni procedurali: fai così, premi qui, schiaccia qui, aspetta... e ancora la Scuola italiana dimostra di essere in ritardo con sé stessa. L'analisi del nostro prof - opinionista Ernesto Bianchi.

Il Ministro all’Istruzione Patrizio Bianchi ha annunciato, la scorsa settimana, che in Italia vanno “ri- addestrati 650mila insegnanti per andare incontro ad un insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.

Come riporta il portale Tecnica della scuola, in altre parole:

Tutti i docenti italiani di ruolo, quindi, saranno in qualche modo coinvolti nel processo di aggiornamento professionale sulle competenze e conoscenze informatiche utili allo svolgimento della didattica e risultate preziosissime nel corso delle lezioni svolte durante la pandemia da Covid degli ultimi due anni.

Tutti coloro che insegnano su discipline, nei vari gradi scolastici – dai maestri d’infanzia a quelli di scuola primaria, passando per i professori della secondaria di primo e secondo grado – dovranno adeguarsi.

Molti anni fa, ho tenuto corsi sulla multimedialità e l’utilizzo dei software per l’uso didattico sia a studenti delle elementari e delle medie, sia a colleghi.

In quelle occasioni la mia preoccupazione era quella di dare indicazioni semplici e spendibili nelle situazioni  di lavoro, evitando le usuali lezioni in cui si passano in rassegna tutte le formule, ad esempio, di un foglio di calcolo. Partivo da tabelle e documenti di uso quotidiano e guidavo la loro creazione. Ma soprattutto non dimenticavo mai e non smettevo di ricordare che i software sono strumenti e, anche nelle intenzioni di chi li ha programmati, auto-istruenti: quindi fornivo indicazioni su come trovare, quando servivano, le istruzioni che di volta in volta si sarebbero rese necessarie.

Il resto genera solo confusione e odio, perché è come la pretesa di imparare a memoria la Treccani.

Ieri una collega che non vedevo da oltre dieci anni e che è ricapitata nella mia stessa scuola mi ha ricordato – bontà sua – che dei tanti corsi di “informatica” che le hanno fatto fare, l’unico che ricorda e che le è servito è stato il mio.

La presunta difficoltà dei software

Io ho imparato da autodidatta. Come molti adolescenti negli anni Ottanta, ho iniziato ad utilizzare un computer quando ancora erano poco diffusi i PC. L’unica lezione di informatica da studente l’ho fatta nel 1993, di due ore, sull’uso del sistema Mac.

Da allora l’unico modo che ho trovato efficace era quello di andare a chiedere a qualche amico, o cercare in rete, ciò che mi serviva. Allora non c’erano ancora gli sms, i Social Network, YouTube. Oggi la rete è piena di tutorial, alcuni dei quali fatti in modo egregio.

A mio parere l’approccio più errato che si possa avere con i software è quello dell’istruzione procedurale. Molto spesso durante i miei corsi dovevo smontare l’abitudine e la tentazione di molti miei colleghi di scrivere passo dopo passo la procedura operativa.

I loro appunti, su agende e fogli volanti, finivano con l’essere di questo tipo:

  • cliccare col tasto dx su l’icona a forma di casetta;
  • cercare la cartella “Office”;
  • ciccare col tasto dx sulla casella due volte;
  • cercare il menù “File”;
  • cliccare una sola volta sul menù File e aspettare che si apra
  • cliccare su Nuovo….

Pensate di imparare a guidare tenendo davanti agli occhi sul cruscotto un foglio in cui c’è scritto: alzare il piede dall’acceleratore; premere il pedale sinistro della frizione; usare la leva del cambio portandolo in folle e inserire la nuova marcia; alzare il pedale della frizione e contemporaneamente premere delicatamente quello destro dell’acceleratore… Non vi sembrerebbe assurdo?

Questo è un ottimo modo per detestare i computer e riempire le agende di appunti senza senso. Tra l’altro è inutile. Coloro che facevano così, mi fermavano continuamente in sala insegnanti per chiedermi come si aprisse un nuovo documento: avevano perso gli appunti e soprattutto detestavano doverli usare.

I programmi di uso comune utilizzano interfacce intuitive e semplici. Per utilizzare un computer occorre un po’ pensare in modo “visuale” e “tattile”. Per chi è abituato alla parola scritta e all’astrazione può essere inizialmente spaesante, ma in realtà è un’operazione molto meno complessa della comprensione di un romanzo.

Io ragionavo in questo modo, non i “maghi” della didattica.

La vera informatizzazione della didattica

Lo strumento inteso in questo modo perverso, ha finito col condizionare i metodi: la didattica nel corso degli anni è diventata sempre più improntata alla procedura, e alla memorizzazione dei suoi schemi. Noiosissima e sterile, in definitiva. Si è “informatizzata”, assumendo le forme – per l’appunto – dell’algoritmo.

I contenuti disciplinari sono stati spezzettati in “step”, moduli, come fossero delle “sub-routine”: ogni modulo, prima di passare al successivo, viene verificato e corretto, poi lo si dà per assunto e fissato. Ma la mente umana non ha la memoria “statica” di una memory card. Funziona in modo del tutto diverso; non starò qui ad illustrare le sue differenze, perché credo siano palesi a tutti voi.

Nessuno ha mai certificato le mie competenze informatiche, anche se mi hanno ritenuto idoneo e capace di insegnarle. Da anni non impartisco lezioni di informatica a nessuno, e non ne ho alcuna voglia. Più di dieci anni fa ho giudicato che fosse un’occupazione noiosa e in fin dei conti inutile, e che preferivo far lavorare le mie cellule grigie su un romanzo o un saggio di filosofia (quelli sì possono essere veramente complicati e complessi!).

Le domande mai poste

Ora sembra che il Ministro voglia obbligare i docenti ad un’ennesima formazione informatica. La spaccia per una novità; il solo fatto che io abbia tenuto per anni dei corsi ai miei colleghi  dovrebbe far capire che quella formazione, pagata dalle scuole e richiesta dall’alto, non è una cosa nuova.

 In realtà, ancora una volta, nessuno riflette sulle vere questioni:

  • la prima è se la qualità dell’insegnamento dipenda in modo tanto forte dalle competenze informatiche al punto da richiedere investimenti molto alti, un impiego abnorme di tempo sottratto al lavoro veramente didattico e ben quattro anni di ulteriori corsi;
  • la seconda è se i software esistenti siano pensati e adeguati all’uso didattico: molto spesso è evidente che chi li ha pensati e costruiti non ha una pallida idea di come funziona una lezione, di come si apprendono le conoscenze, e di come funziona la mente di un ragazzo, e di un docente; in tal caso i software finiscono col piegare la didattica ancora di più a quella logica procedurale che ci vorrebbe esseri dotati di Hard Disk e non di Mente;
  • la terza è se i corsi, svolti per lo più con le vecchie modalità, e imposti come un’odiosa necessità, oltre ad essere umilianti per chi insegna con rigore e capacità la sua specifica disciplina, siano pensati e strutturati male: per imparare a usare un foglio di calcolo o un programma di videochiamata davvero sono necessarie più di un paio di ore? Io non credo ne servano di più, a meno che non si vogliano esplorare tutte le possibilità che esso offre (e che nessuno usa tutte insieme), ma che richiedono la comprensione di formule matematiche per la maggior parte appannaggio degli specialisti. La maggior parte dei docenti userà mai la funzione “Sen.” o “Bessel.J”, se anche ne sapesse il significato?;
  • la quarta questione riguarda la qualità dell’aggiornamento e dell’insegnamento: le discipline si evolvono, non solo nei metodi, ma anche nei contenuti, e il mondo cambia continuamente. Molti insegnanti sono stati formati all’università parecchi anni prima, e sarebbe opportuno che avessero tempo, modo e stimoli per conoscere e valutare questi cambiamenti.

Non sarebbe possibile pensare a corsi di aggiornamento, più interessanti, che mettano in collaborazione scuola e università sulle novità pertinenti le singole discipline? Mi sembra invece che si pensi sempre più che gli insegnanti, una volta apprese quanto studiato all’università, non debbano fare altro che ripetere quei saperi ai loro studenti, anche se nel frattempo la ricerca li ha rivisti, li ha rielaborati, ne ha messo in luce aspetti nuovi.

La scuola, anche nei libri di testo sembra spesso in ritardo, rispetto al mondo della cultura, di dieci o venti anni. I colleghi migliori si aggiornano, leggono, si interrogano, si incuriosiscono, perché per fortuna esistono libri e riviste che sono scritti egregiamente.

Eppure questo tipo di aggiornamento e di professionalità non viene riconosciuto: se ad esempio un docente scrive un manuale, ben fatto, questo non verrà mai considerato ai fini della sua carriera; se si aggiorna, e spende, per leggere, andare a teatro, seguire conferenze, per visitare mostre, abbonarsi a riviste, ciò non avrà mai alcun riflesso sulla sua carriera.

Invece, sembra che verrà premiato – poco – chi farà corsi di informatica; nel frattempo i 500 euro che da pochi anni erano stati stanziati per le spese di aggiornamento (invitando ad usarli soprattutto per computer e attrezzature informatiche) verranno ridotti, almeno seconde le dichiarazioni dall’attuale ministro.

Così i docenti si ritrovano con richieste ministeriali che premiano chi non si è aggiornato mentre si sostituisce la complessità dei saperi con la complicazione delle procedure burocratiche. Agli esami di Stato può capitare che vengano proposti testi, come quelli di pochi giorni fa, che non presentano aspetti problematici, ma su cui è facile applicare le procedure analitiche apprese, e trovare richieste che rivelano la scarsa conoscenza dello stato della ricerca e dell’interpretazione accademica; il tutto accompagnato da sistemi bizantini e ridondanti di attribuzione dei punteggi.

La novella “Nedda” viene implicitamente spacciata per “verista”, quando essa al massimo può considerarsi un momento di passaggio al Verismo e quando il dibattito critico è diventato un po’ più problematico. Si scopre che proprio chi ti chiede di aggiornarti sui software è molto meno aggiornato sui contenuti, se non fermo a una lettura della cultura vecchia di 50 anni.

Probabilmente, dopo 27 anni di docenze e 40 anni di uso onorevole dei software, toccherà anche a me l’umiliazione di uno di questi corsi “di riaddestramento”, perché nessuno ha mai pensato che l’uso dei programmi, costruiti con l’idea di essere auto-istruenti, possa apprendersi da autodidatta, mentre tutto quello che dopo l’università ho letto, studiato, osservato e che riverso nelle mie lezioni continuerà a non interessare ai miei ministri.

Ernesto Bianchi

Nato nel Novecento a Napoli, dopo la laurea in Filosofia e due idoneità al Dottorato, è andato a insegnare a Bergamo, vincitore di concorso, perché non voleva chiedere e non voleva accettare raccomandazioni. Ama la cultura e gli piace moltissimo insegnare quando ci riesce. Ci prova da 27 anni, ma nel frattempo ha lavorato anche a cose noiosissime, facendo il vicepreside e il coordinatore di aree e progetti. Ha sempre preferito stare in classe a fare lezione. Tuttavia ha anche un canale di lezioni su Youtube.

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