L’insostenibile vacuità degli NFT
Una ricerca interessata ma fino a un certo punto mostrerebbe come il mercato degli NFT sia clamorosamente crollato. E ora ci sono migliaia di persone con in mano certificati digitali univoci per opere senza valore alcuno. Dimostrazione che non tutte le rivoluzioni digitali straparlate siano in realtà tali.
Il mercato degli NFT è clamorosamente crollato. Contestualizziamo innanzitutto tale affermazione: rimbalzata qua e là sulla Rete, finendo ad occupare gli autorevoli spazi web della più famosa agenzia italiana, tale verità è prodotta da dappGambl. Siamo in un vero e proprio paradosso, un corto circuito d’informazione: dappGambl è infatti un’azienda che già dal nome richiama il gambling, gioco d’azzardo. E infatti sul sito della società si parla di crypto, certo, ma anche di crypto casinò suggeriti dagli esperti.
Un provvedimento del 2018 (che i più ricorderanno con il nome ante-conversione di Decreto Dignità) ha vietato ogni forma di pubblicità – anche indiretta – al gioco d’azzardo. Ciò sembrerebbe però non vietare a piattaforme di questo tipo di trovare vie indirette, come le analisi e gli studi, per trovare spazio sui quotidiani, anche di certa autorevolezza.
È una dovuta premessa, questa, che chi scrive vuole chiarire prima di adottare tali dati per una riflessione ben diversa: c’è un vuoto normativo e in questo vuoto compaiono dipartimenti, ricerche e sondaggi per tenere il gioco comunque nelle nostre pagine quotidiane. Prendiamo per buono quindi che una società che si occupa di questo mercato – strizzando l’occhio al gioco online – abbia in effetti fatto una analisi disinteressata degli NFT (non abbiamo motivo di metterlo in dubbio).
Questa ricerca recita più o meno così: in un biennio le transazioni sono diminuite del 97%; il 79% delle collezioni certificate con NFT sono rimaste invendute; il 95% di coloro che hanno investito in NFT si trova ora con un prodotto senza alcun valore.
Ma torniamo un attimo alla base: cosa diavolo è un NFT? Per i non avvezzi a questi termini che startupper e imprenditori illuminati de’ noantri sparano un po’ alla come capita, i non-fungible token altro non sono che una sorta di certificato digitale non riproducibile, non copiabile, unico in tutti i sensi. Basati su tecnologia blockchain, gli NFT composti da lunghe stringhe alfanumeriche generate da un algoritmo hanno trovato il loro senso di esistere come “certificato di proprietà digitale”, principalmente di opere come quelle d’arte. Anche se legalmente tutto ciò non ha nessun tipo di rilievo, va anche detto.
Ma pensateci lo stesso: d’un tratto qualcosa di unico, sebbene digitale, poteva essere univocamente di qualcuno. Di uno e uno solo. Mettete questo e il fatto che dicendo NFT pare si stia dicendo una cosa davvero figa e capirete come un mondo annoiato dalla pandemia e alla ricerca di opportunità di riscatto ritenesse tale strumento “il futuro”.
Diciamocelo, chi li riteneva il futuro poteva farlo principalmente per due motivi: o per lucrarci sopra o perché uno tra quelli che davvero credevano che oggi i nostri avatar stavano lavorando da casa per noi in digitale, governati con strani arnesi e visori VR mentre stupidi ci muovevamo come scimmie ubriache nei nostri soggiorni, con lo smart working ormai sdoganato e gli unicorni in cielo a ricordarci la beltà dei sogni degli imprenditori guru su LinkedIn.
In realtà comprare un’opera d’arte che – con tanto di certificato di autenticità – finisce al più su un hard disk altro non è che onanismo digitale, una sorta di ostentazione di potere e stato sociale come un tempo alla corte dei Medici.
Cosa cambia da Lorenzo il Magnifico ad oggi, però?
Innanzitutto, i maestosi corridoi di palazzo Medici Riccardi, così come quelli straordinari dei Musei Vaticani o di altre centinaia di esempi in tutta Italia nulla hanno a che vedere con una asettica chiavetta USB infilata in un pc di penultima generazione. In secondo luogo, manca l’educazione al bello. Non scherziamo, dai. Chi dice che l’arte è per tutti mente, e le corti di un tempo dovrebbero ricordarci come le novizie venissero educate alla musica o alla pittura prima dell’ingresso in società. Oggi anche fare musica poco riguarda la musica ma il marketing, poco riguarda la voce quando i miracoli dell’autotune possono produrre prodotti vendibili con ritornelli orecchiabili che restano a suonare nella corteccia prefrontale fino a quando non vengono coattamente sostituiti.
In questo panorama, ritenere ogni schizzo digitale e ogni pomposa esecuzione di pseudoartisti su pseudopiattaforme un’opera d’arte vale da solo un biglietto di sola andata per la lucida follia.
Oggi secondo dappGambl la gran parte di questi file e queste opere di sedicenti artisti non ha valore alcuno per chi le ha acquistate. Chi lo avrebbe detto mai?
Beh, in realtà io. E tanti altri.
Ma lasciamo perdere chi lo avrebbe detto. Vediamo invece chi non l’ha detto. Ad esempio, quelli che pontificavano sul Metaverso, trovata di rebranding che è servita principalmente a Mark Zuckerberg come coup-de-theatre per tirarsi fuori da altri dibattiti ben più spinosi (cough cough Cambridge Analytica cough cough). Non sorprende quindi vedere nello stesso insieme sociale quelli che ritenevano normale un certificato di possesso di un’opera digitale e quelli che già parlavano del mondo destinato senza salvezza al Metaverso (quello lì pensato proprio da Facebook, eh) raccontando di scenari di cui ad oggi non vi è traccia.
C’è chi ci ha creduto, eh. Ma c’è anche chi ci ha provato a guadagnare. Hanno fatto scienze, seminari, lanci stampa; hanno promosso convegni e addirittura venduto formazione e servizi. Sono stati promossi finanche Osservatori con improbabili sondaggi su campioni numericamente insignificanti.
La verità è un’altra. Ci sono cose che non possono essere digitalizzate sebbene qualcuno ogni tanto provi a raccontare un’altra storia. La vita è fuori, e non ci sarebbe voluto molto a capirlo anche qualche anno fa. Sarebbe bastato vedere alla fine che ha fatto Second Life.