Le equilibriste della maternità: il divario del child penalty gap pesa sul 42,6% delle donne
Il 42,6% delle donne con figli nella fascia d’età 25-54, infatti, risulta non occupata, con uno divario rispetto agli uomini di più di 30 punti percentuali. Il dato cambia notevolmente a seconda delle aree del Paese, arrivando a sfiorare il picco del 62,6% nel Mezzogiorno, seguito dal 35,8% al Centro e da un 29,8% al Nord.
Equilibriste della maternità: così vengono definite le madri di oggi dall’ultimo rapporto di Save the Children sul peso – in termini economici, sociali e lavorativi – del ruolo genitoriale delle donne.
Ad una manciata di ore dalla Festa della mamma, il quadro dipinto dalla storica associazione non è dei più rosei: mancano servizi di welfare familiare in quasi tutto il territorio italiano, il mondo del lavoro spesso si presenta come ostile per le donne che scelgono di avere figli, il ruolo di cura e dedizione ricade ancora – nella maggior parte dei casi – solo sulle madri.
Si può parlare, allora, di child penalty gap? La risposta è sì, ed è quanto si legge nei dati nel 7° Rapporto di Save the Children “Le Equilibriste: la maternità in Italia 2022”.
Quanto pesa il child penalty gap sulla maternità
La maternità, per molte donne, rischia di non poter essere più una scelta:
Scelgono la maternità sempre più tardi (in Italia l’età media al parto delle donne raggiunge i 32,4 anni) e fanno sempre meno figli (1,25 il numero medio di figli per donna). Devono spesso rinunciare a lavorare a causa degli impegni familiari (il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli, risulta non occupata), con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, oppure laddove il lavoro sia stato conservato, molte volte si tratta di un contratto part-time (per il 39,2% delle donne con 2 o più figli minorenni).
Solo poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10 tra quelli attivati nel primo semestre 2021, è a favore delle donne. Nel solo 2020 sono state più di 30mila le donne con figli che hanno rassegnato le dimissioni, spesso per motivi familiari anche perché non supportate da servizi sul territorio, carenti o troppo costosi, come gli asili nido (nell’anno educativo 2019-2020 solo il 14,7% del totale dei bambini 0-2 anni ha avuto accesso al servizio finanziato dai Comuni).
Un quadro critico quello che emerge dal Rapporto, ad iniziare dal tasso di natalità che nel 2021, nel nostro Paese, segna l’ennesimo minimo storico dall’Unità d’Italia. I nuovi nati, infatti, calano al di sotto della soglia dei 400mila (399.431), in diminuzione dell’1,3% sul 2020 e di quasi il 31% rispetto al 2008.
Ma se siamo un Paese di vecchi – scrivevo qualche mese fa – la colpa non è solo nostra: la generazione fertile, quella che va dai 20 ai 40 anni circa, ha perso la bussola della “normalità” già da parecchi anni. Rispetto alla generazione dei nostri avi, i così detti baby boomers nati fra gli anni ’40 e ’60 che hanno vissuto il boom economico (e demografico) del post-guerra, le generazioni a seguire già dagli anni ’80 hanno iniziato a pagare lo scotto di vivere in un mondo diverso, complesso, globalizzato, dove già iniziava a diffondersi il termine “disoccupazione” e “denatalità”.
A pesare nel mondo contemporaneo, quindi, ci sono diversi fattori che incidono sulla maternità: non la semplice volontà di “non avere un figlio” – dovuta, fra l’altro, alla diffusa presa di coscienza di non voler rispondere a nessun obbligo sociale o pressione biologica- ma il confrontarsi con condizioni lavorative, economiche e sociali sempre più complesse.
La maternità, allora, diventa una scelta difficile: “le mamme sono alla continua ricerca di un equilibrio tra vita familiare e lavorativa, spesso senza supporto e con un carico di cura importante, aggravato negli ultimi anni a causa della pandemia”, sottolinea Save The Children.
“Le donne, quindi, a differenza degli uomini, sono ancora in notevole svantaggio quando, nei loro orizzonti di vita prende corpo la decisione di avere un figlio. E questo avviene non solo sul versante occupazionale, ma anche su quello retributivo, tanto che ormai questa condizione viene definita ‘motherhood penalty’ (o ‘child penalty gap’)”, evidenzia Save The Children.
Secondo il Rapporto “Le Equilibriste”, il 42,6% delle donne con figli nella fascia d’età 25-54, infatti, risulta non occupata, con uno divario rispetto agli uomini di più di 30 punti percentuali. Il dato cambia notevolmente a seconda delle aree del Paese, arrivando a sfiorare il picco del 62,6% nel Mezzogiorno, seguito dal 35,8% al Centro e da un 29,8% al Nord.
Come il gender gap pesa sulla maternità
Non solo, quindi, i percorsi di vita che si allungano e l’accesso al mercato del lavoro che, quando arriva, è sempre più precario, ma a pesare sulla scelta della maternità è anche il gender gap che, associato a politiche di welfare carenti, determina il quadro seguente:
Lo scenario delineato dai dati indica un mancato sostegno pubblico alle mamme che affonda le sue radici nelle pesanti disparità di genere in Italia che prescindono dalla decisione delle donne di avere dei figli. Per le diplomate, ad esempio, i salari sono sistematicamente inferiori e il divario di genere tende ad aumentare nel tempo.
Il reddito mensile lordo medio stimato per i ragazzi nell’anno del diploma ammontava a 557 euro, mentre per le ragazze a 415. Nell’anno successivo, in cui i lavori cominciano ad essere più stabili, sale a 921 euro per gli uomini, mentre per le donne è di soli 716 euro.
Alle soglie dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce. Facilmente comprensibile come il reddito della donna all’interno di una famiglia – essendo il più basso – sia sacrificabile, generando un circolo vizioso che favorisce l’esclusione femminile dal mercato del lavoro.
Secondo i dati diffusi da Save the Children, infatti,
Anche la lieve ripresa economica dello scorso anno è caratterizzata da ingiustizie di genere: delle 267.775 trasformazioni contrattuali a tempo indeterminato del primo semestre 2021, solo il 38% riguarda donne. Se si guarda il numero totale di attivazioni contrattuali (sul totale di tutte le attivazioni) nel 1° semestre per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo per ultimo, l’indeterminato (14,5%).
Per contro, degli oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, subito seguito dall’indeterminato (il 18%). La sintesi della condizione professionale delle donne nel mercato del lavoro, che tuttora persiste in Italia, si potrebbe riassumere nella frase “Le ultime ad entrare, le prime ad uscire”, come sottolineato dal Cnel.
E ancora:
Mentre il tasso di occupazione dei padri tende a crescere all’aumentare del numero di figli minorenni presenti nel nucleo, per contro, quello delle madri tende a diminuire. A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne occupate (tre donne su 5), gli uomini nella stessa condizione che hanno un lavoro sono l’88,6%. Il divario aumenta quando, entrambi i generi hanno due o più figli minorenni (donne occupate 54,5% a fronte dell’89,1% degli uomini), con una differenza di 34,6 punti.
Anche i dati sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri di bambini/e di 0-3 parlano chiaro: su 42.377 casi nel 2020, il 77,4% riguarda donne. Le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% (30.911) del complesso delle dimissioni volontarie, a fronte delle 9.110 dei padri. Sul totale delle motivazioni indicate nelle convalide, quella più frequentemente segnalata continua ad essere la difficoltà di conciliazione della vita professionale con le esigenze di cura dei figli.
La maternità in Italia è ancora un lusso. E se non si riuscirà ad invertire la tendenza che vede ancora le donne come “angeli del focolare” pronte a sacrificare vita e diritti per avere un figlio, difficilmente la maternità potrà essere una scelta scevra da condizionamenti economici e sociali.