Editoriale

Continuano a chiamarla “maturità”: gli Esami di Stato visti da un docente

La storia mi ha insegnato che ogni generazione, quando pensa che il suo tempo e il suo modo di pensare, nei quali è cresciuta, sia il punto più alto dello sviluppo morale umano, ripete all’incirca gli stessi errori: mitizza il periodo della propria giovinezza chiamandolo “i bei tempi”; considera primitivi i tempi precedenti, a meno che in essi non sia individuabile una nobile origine dei propri valori; guarda con scoraggiato senso di sconforto e declino spirituale e morale tutti coloro che sono più giovani.

Continuiamo a chiamarli “la maturità”, nonostante da tempo ormai si chiamino solo “Esami di Stato conclusivi del secondo ciclo di istruzione”, che è un nome molto più preciso, apparentemente molto più neutro e soprattutto inutilmente più lungo.

Ma al di là delle formule e delle titolazioni, costituiscono ancora un rito di passaggio, uno dei tanti, eppure ancora fondamentale, tra l’adolescenza e l’età adulta.

Ironicamente, appena diventati adulti, ossia nel momento in cui sono affissi all’albo i risultati finali, cominciamo un po’ tutti a comportarci da “vecchi”;  non da vecchi saggi e ricchi di esperienze metabolizzate, ma da intolleranti criticoni incapaci di guardare ai giovani – ai più giovani – senza una punta di orrore e di moralismo.

Per dirne una, quest’anno ho chiesto ai miei studenti neomaggiorenni e neopatentati se, considerando la percentuale sempre minore di giovani nella popolazione italiana, non si dovesse considerare di abbassare l’età minima per il voto, anche solo quello per le amministrative, ai sedici anni: ho scoperto che i diciottenni (almeno quelli della mia classe) non hanno alcuna stima né morale né intellettuale di quegli “irresponsabili idioti” dei sedicenni.

Quando l’ho chiesto ai sedicenni, la loro reazione è stata diversa: hanno dubitato di se stessi, ma hanno iniziato a farsi domande da “adulti responsabili” come chiedersi cosa avrebbe comportato avere quella responsabilità, quali informazioni erano necessarie per votare bene, quali ragionamenti fare, quali valori sostenere. Non illudetevi: i miei studenti sedicenni ritengono infatti che i ragazzini delle medie siano, rispetto a loro, degli alieni senza alcuna dignità, cui i genitori concedono troppa libertà e che abbiano talvolta modi di parlare, di vestire e di comportarsi, soprattutto nei confronti della sessualità, a dir poco sconvenienti. Mi fermo qui perché non sono andato a chiedere agli studenti delle scuole medie cosa pensino di quelli delle elementari.

Io insegno Storia. La storia non è una scienza di quelle esatte, non permette previsioni accurate del futuro, non individua leggi certe dello sviluppo storico: piuttosto la storia rende comprensibile e dotato di senso, in un racconto fondato su fatti accertati, il nostro passato. Eppure una cosa la storia la può insegnare, o almeno l’ha insegnata a me: a non rendere il momento in cui viviamo, nel luogo in cui viviamo, dotato del crisma della verità assoluta e della perfezione.

E quindi la storia mi ha insegnato che ogni generazione, quando pensa che il suo tempo e il suo modo di pensare, nei quali è cresciuta, sia il punto più alto dello sviluppo morale umano, ripete all’incirca gli stessi errori: mitizza il periodo della propria giovinezza chiamandolo “i bei tempi”; considera primitivi i tempi precedenti, a meno che in essi non sia individuabile una nobile origine dei propri valori; guarda con scoraggiato senso di sconforto e declino spirituale e morale tutti coloro che sono più giovani.

In particolare, pensando all’esame di “maturità”, che ci ostiniamo a chiamare così a dispetto del parlare preciso e neutrale, ogni generazione ha considerato i propri valori, le proprie speranze e le proprie passioni come le più valide, mitizzato quello della propria giovinezza e di conseguenza la scuola che ha frequentato e che pure molto probabilmente da studente sopportava e voleva modificare e migliorare.

Quando sostenni l’esame di Stato nel 1988, la commissione era composta tutta di membri esterni, con l’eccezione di un membro interno che però non interrogava; si sostenevano due prove scritte e non si parlava di colloquio interdisciplinare, ma di interrogazioni vere e proprie su tutto il programma del quinto anno: l’esame ci incuteva una certa paura, ma mia madre, paragonandolo a quello che lei aveva sostenuto 30 anni prima, diceva spesso che il mio sarebbe stato molto più semplice, perché loro avevano “portato” tutte le materie e non solo due, scelte per giunta dagli studenti, e avevano dovuto ripetere il programma degli ultimi due anni, non solo della quinta.

Il mio zio più grande avrebbe potuto dire a sua volta che quello sostenuto da mia madre non era stato difficile per niente, perché lui e i suoi coetanei l’esame non avevano potuto farlo nemmeno: erano partiti per il fronte dove lui era stato fatto prigioniero. L’esame di maturità erano stati i campi di detenzione. Ma se avesse fatto l’esame inventato dal ministro Gentile, lui non avrebbe avuto una prova facile come mia madre: la commissione al suo tempo era composta unicamente da professori universitari, terrorizzanti solo a sentirli nominare, e non lo sostenevi a casa!

Bisognava viaggiare, perché c’erano solo 40 sedi in tutta Italia dove fare l’esame: gli scritti, poi, erano 4, difficilissimi e si portava il programma svolto durante tutti e tre gli anni di liceo: chiedevano tutto e di tutte le materie, i commissari erano cattivissimi e i voti bassissimi. Quasi metà dei candidati veniva bocciata, anche se poteva fare l’esame di riparazione. Era una prova quasi impossibile, la scuola ai suoi tempi era seria… Il nonno avrebbe potuto dire che lui non solo aveva dovuto lasciare la scuola per fare il ferroviere, e così servire la patria sulle locomotive e non nelle trincee della grande guerra, ma che dalla scuola alle elementari, come era successo alla moglie, ti potevano espellere anche se facevi un solo fiato quando la maestra ti bacchettava le mani.

Mi chiedo quando una generazione sia riuscita a dire alla successiva che era fiera di lei, delle difficoltà che stava affrontando, capendo che i tempi cambiano, che certe cose peggiorano e altre migliorano e che – citando liberamente Tolstoj – tutte le generazioni sono felici allo stesso modo ma ognuna è infelice a modo suo. Non ho alcuna prova ma sono convinto che quando Gutemberg nel 1440 inventò la stampa, una ventina di anni dopo ci fu un genitore che disse a suo figlio una frase simile a questa: “Stai sempre con quel libro in mano! Dovresti uscire, vedere gente. Ai miei tempi leggevamo solo i manoscritti, e solo quando potevamo andare in un’abbazia. Chissà dove andremo a finire di questo passo!”

Così anche in questi giorni, prima dell’esame, alcuni “vecchi” intellettuali hanno sparato a zero – in modo poco originale – sulla generazione dei maturandi: i giovani hanno perso attesa e desiderio, sono apatici, vivono in famiglie disastrate, hanno valori effimeri e poco spirituali e anche se la colpa è del destino, della società, dei genitori, degli insegnanti, degli smartphone, di Netflix, del buco nell’ozono, della dieta carnivora, della dieta vegana e delle reti 5G, alla fine comunque la si metta sembra proprio che non ci siano speranze per loro e per il nostro futuro.

Ma io ricordo il compianto Luca Serianni, che per me incarnava il modello dell’intellettuale umile in senso dantesco, consapevole della sua cultura e perciò in grado di metterla al servizio dei suoi studenti e ascoltatori. Per questo probabilmente affermava che “chi sceglie di fare l’insegnante non può permettersi il lusso di essere pessimista, perché ogni allievo è una risorsa preziosa”.

Può sembrare un’affermazione retorica, ma non lo è affatto. Io la collego ad un’ulteriore riflessione: un giorno uno dei miei studenti potrà essere il medico che mi dovrà operare, l’infermiere che mi dovrà soccorrere, l’avvocato o il giudice in una causa che mi coinvolge, l’amministratore del mio condominio, l’idraulico che mi ristrutturerà il bagno, il cameriere che mi porterà la pizza, il poliziotto che vigilerà sulla mia sicurezza, l’insegnante dei miei figli e nipoti, il bidello che pulirà le loro aule, l’assicuratore a cui mi rivolgerò, il sindaco del mio paese, e infine anche il mio badante.

Quando considero queste cose non posso non pensare a due ragioni del tutto egoistiche che mi spingono a fare il mio lavoro bene e con spirito di umiltà: la prima è che mi conviene farlo molto bene per avere in futuro un giudice, un avvocato, un medico, un poliziotto ecc. competente e capace di leggere, capire e pensare nel modo meno ottuso possibile; la seconda è di evitare di essere un modello di potere arbitrario, poco umano, ottuso e vendicativo anche per evitare che egli, imparando da me, esprima poi proprio su di me tali meravigliose qualità, ancora peggio se in maniera creativa e intelligente. Immaginate di essere sulla sedia del dentista e di trovarvi di colpo un vostro studente, magari quello a cui avete ricordato ogni giorno quanto fosse incapace, svogliato e fastidioso, e che lui abbia il trapano in mano: capirete immediatamente cosa intendo dire.

In ultimo, confessando che anche io divento sempre più vecchio e faccio sempre più fatica a comprendere le mie nuove classi, la loro emotività, i loro modi di pensare e di “funzionare”, come direbbero gli psicologi, credo che tutti dovremmo fare ai nostri giovani, così diversi da noi, anche così incredibilmente “estranei”, l’augurio che per loro la maturità significhi riuscire a vedere nel futuro e nei più giovani sempre più motivi di speranza che di autocompiaciuta decadenza. E di avere buoni maestri come Luca Serianni.

Ernesto Bianchi

Nato nel Novecento a Napoli, dopo la laurea in Filosofia e due idoneità al Dottorato, è andato a insegnare a Bergamo, vincitore di concorso, perché non voleva chiedere e non voleva accettare raccomandazioni. Ama la cultura e gli piace moltissimo insegnare quando ci riesce. Ci prova da 27 anni, ma nel frattempo ha lavorato anche a cose noiosissime, facendo il vicepreside e il coordinatore di aree e progetti. Ha sempre preferito stare in classe a fare lezione. Tuttavia ha anche un canale di lezioni su Youtube.

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