Editoriale

Oltre l’ideologia del salario minimo conta il “quanto” e il “come”

Nell’ottica di lotta alla povertà un salario minimo deve essere integrato da altri strumenti con forme di prestazioni sociali anche per chi lavora, sostenendo il reddito e non disincentivando il lavoro.

Il 7 giugno scorso la Commissione per l’occupazione e gli affari europei del Parlamento europeo ha annunciato l’accordo sulla direttiva Ue per il salario minimo: “La nuova legge, una volta adottata definitivamente, promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà così a raggiungere condizioni di lavoro e di vita dignitose per i dipendenti europei”, precisa una nota diffusa dalla Commissione stessa. Il 12 luglio è stato approvato il testo, cui manca solo il voto definitivo previsto per settembre prossimo.

Giusto per sgombrare il campo da eventuali equivoci lessicali, va chiarito che il testo non dispone uno standard europeo di salario minimo e nemmeno prevede una sistematizzazione armonica dei singoli sistemi dei Paesi per calcolare i salari legali. Il testo, al contrario, tende a rispettare le singole pratiche nazionali, dove presenti, e non ha alcun intento di imposizione.

“Il ruolo dei salari minimi acquisisce un’importanza ancora maggiore nei periodi di recessione economica. La crisi COVID-19 ha colpito in maniera particolare i settori caratterizzati da un’elevata percentuale di lavoratori a basso salario, come il commercio al dettaglio e il turismo, e ha avuto un impatto maggiore sui gruppi più svantaggiati della popolazione.

Garantire che i lavoratori dell’Unione abbiano accesso a opportunità di impiego e a salari minimi adeguati è essenziale per favorire una ripresa economica sostenibile e inclusiva. La tutela garantita dal salario minimo può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in ventuno Stati membri.”

Così recita la Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (COM(2020) 682 final). Negli Stati membri in cui la tutela garantita dal salario minimo è fornita esclusivamente mediante contratti collettivi, come in Italia, la sua adeguatezza e la percentuale dei lavoratori che ne usufruiscono sono determinate direttamente dalle caratteristiche e dal funzionamento del sistema di contrattazione collettiva. Anche negli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali la contrattazione collettiva incide in maniera significativa sull’adeguatezza del salario minimo.

L’Italia, infatti, è tra i Paesi europei che non hanno ancora una normativa che stabilisca un minimo retributivo (gli altri Paesi sono Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia) e l’accordo individua i criteri per i salari minimi sopra la soglia della sopravvivenza, tenendo conto del costo della vita e del potere d’acquisto. Questo attraverso un salario minimo fissato per legge oppure l’estensione della copertura della contrattazione collettiva, che dovrà arrivare all’80% anche, se necessario, tramite un piano di azione sotto il monitoraggio dell’Ue.

Non è previsto, quindi, nessun obbligo né un salario minimo comune per tutti i Paesi membri a cui viene chiesto di «introdurre un quadro procedurale per fissare i salari minimi e aggiornarli secondo una serie di criteri chiari e stabili» e la direttiva specifica due percorsi: l’introduzione di un tetto, con un vero e proprio salario minimo legale (il livello salariale più basso consentito dalla legge diverso per ogni Paese) o il ricorso alla contrattazione collettiva tra lavoratori e datori di lavoro.

Su cosa si basa, allora, l’acceso dibattito di queste settimane? In realtà, da sola la discussione non ha granché senso, ma se collegata al cuneo fiscale e al reddito di cittadinanza assume importanti aspetti politici e amministrativi.

Non è un caso, infatti, che le contrarietà non siano affatto nascoste da chi rappresenta il sistema capitalistico del Paese o, comunque, da chi porta le istanze dei cosiddetti poteri forti. Restano favorevoli le forze politiche che individuano nel contrasto alle disuguaglianze e alle povertà una leva per lo sviluppo.

Nonostante la crisi politica degli ultimi giorni, il premier Draghi e il Ministro del Lavoro Orlando hanno dichiarato il loro consenso all’adeguamento dell’Italia alla direttiva sul salario minimo. Le parti sociali hanno visioni piuttosto differenti tra di loro. A individuare la strada più giusta e coerente con il proprio Sistema Paese sono dunque i governi nazionali. Compresi quelli, come il nostro, che hanno una copertura di contrattazione collettiva elevata ma non hanno un salario minimo per legge ma dove vivono e lavorano intere fasce di lavoratori al di sotto del minimo effettivo «adeguato ed equo».

A questo punto, e vista la non impositività della direttiva, la riflessione che ne emerge non è tanto il se prevedere il salario minimo in Italia, ma il quanto e il come, soprattutto per evitare effetti negativi sull’occupazione; secondo uno studio di Arindrajit Dube dell’Università del Massachusetts, un salario minimo al 60% del salario mediano ha effetti statisticamente non significativi sull’occupazione.

Ritengo che nessuno sia così naif da pensare che il salario minimo possa rappresentare la “killer application” per un mercato del lavoro asfittico ed evidentemente diverso da territorio a territorio. Di certo, ne rappresenta una parte importante nella riforma del mercato del lavoro, oltre agli investimenti in welfare,  istruzione e formazione.

Nell’ottica di lotta alla povertà, quindi, un salario minimo deve essere integrato da altri strumenti con forme di prestazioni sociali anche per chi lavora, sostenendo il reddito e non disincentivando il lavoro.

Il salario minimo legale può di certo assicurare un minimo orario, ma non sempre corrisponde all’anglosassone “living wage”, ovvero un importo sufficiente ad assicurare un dignitoso tenore di vita. Pensiamo, ad esempio, ad un salario minimo legale uguale in tutto il Paese. In un borgo rurale o comunque in campagna consentirebbe di vivere dignitosamente ma risulterebbe assolutamente inadeguato in zone urbane e metropolitane.

Il salario minimo, ancora, incide sulla discussione relativa a un sistema di contratti e, quindi, affronta comunque l’eventuale rafforzamento delle tutele e della protezione di una fascia di lavoratori, escludendo di fatto lavoratori autonomi e altre tipologie cui i contratti collettivi non si applicano.

La discussione dovrebbe intervenire sui temi della fiscalità, dei salari, della precarietà, del lavoro irregolare, del contrasto alla disoccupazione di intere fasce di popolazione, ormai abituata – suo malgrado – a un sistema che assiste senza generare sviluppo. Le condizioni, anche dettate dal PNRR e dalla nuova programmazione 2021 – 2027, ci sono e sarebbe un errore imperdonabile non coglierle.

Monica Buonanno

Esperta di politiche attive del lavoro, dipendente di Anpal Servizi, Partner di Progetto del Forum Disuguaglianze e Diversità, già Assessore alle Politiche Sociali e al Lavoro del Comune di Napoli. In un mondo dove le disuguaglianze sono sempre più nette, trova inadeguata una politica che segmenti servizi e misure contro le povertà. Propone un modello di integrazione tra lavoro, welfare e sviluppo territoriale.

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