Editoriale

La pesca Esselunga che “lava” la SERP

Nell’Italia delle polemiche sterili e degli articoli di giornale che riprendono reazioni e tweet di sconosciuti non autorevoli su eventi assolutamente insignificanti, un particolare spazio andrebbe riservato alla pesca della pubblicità Esselunga.

Non perché lo spot non sia obiettivamente disruptive di una cultura italiana segnata indissolubilmente dalla famiglia felice intorno al tavolo di colazione al punto tale da utilizzare il riferimento a un’altra azienda e altri spot per definirla (la famosa famiglia del Mulino Bianco). Rendere protagonisti due genitori di questa stucchevole storia in cui una bambina triste usa una pesca comperata al supermercato nella speranza di avvicinare mamma e papà separati vuole perseguire questo scopo.

La questione però è un po’ diversa.

Per i non addetti ai lavori, specifichiamo subito che siamo nella quarta era della pubblicità. Abbiamo superato la fase in cui si pubblicizzava il fatto che Esselunga vendesse pesche, e anche quella in cui Esselunga dichiara con la pubblicità che le sue pesche siano più buone o più convenienti di quelle di un competitor. Abbiamo anche superato quella fase in cui Esselunga spiega con la pubblicità che questo storico marchio è da sempre nelle vostre vite con dipendenti felici e banconisti pronti a servirvi come uno di famiglia. Ora quelli bravi del marketing ci spiegano che le aziende devono condividere valori e azioni per fidelizzare un consumatore sempre più attento a determinate dinamiche sociali.

Per questo ora accendi la tv e vedi la compagnia di crociere che parla di viaggi transoceanici a impatto zero sull’ambiente (sì, sì) o il produttore di biscotti che ti informa delle politiche di economia circolare, o ancora il brand automotive che ti parla di CO2 abbattute (quoque tu) e ancora immagini di un domani diverso e sostenibile con meno plastiche eccetera eccetera. E ancora l’assorbente che lotta contro la violenza sulle donne e il deodorante che promuove campagne contro i modelli di bellezza non inclusivi. Il tutto condito da bollini di parità di genere, sedicenti certificazioni di ambienti LGBTQI friendly o con condizioni di lavoro umane talmente brillanti da esibire in pubblico, senza dimenticare mai i pannelli solari sui tetti degli stabilimenti.

In fondo, lo sapete anche voi che è così. E se non lo sapete consciamente comunque avete introiettate immagini precise di questo futuro radioso che somiglia nella vostra mente allo spot di quell’auto elettrica che sfreccia sulle strade scandinave appena uscita dalle notti di metropoli luminose e ordinate.
In questo futuro in realtà distopico rispetto agli indicatori che abbiamo oggi dello stesso (l’estate 2023 più calda di sempre dovrebbe essere uno di questi), cosa rappresenta la bambina con la pesca? Quale valore? Forse Esselunga – volendo regalarci emotività spiccia per creare coinvolgimento – intende per caso dire che sostiene la famiglia non divorziata? Che è a favore delle riappacificazioni tra genitori? Che ha della frutta miracolosa che è ben altro degli elisir d’amore venduti da improbabili fattucchiere? Non è chiaro, ma se è vero che nel bene o nel male basta che se ne parli Esselunga è riuscita nel suo scopo.

Ma siamo sicuri che valga ancora anche questo approccio? Io non lo so: dopo aver visto quello spot posso sentirmi irritato personalmente, vero, ma credo che anche chi approccia alla storiella senza spirito critico sia accompagnato da emozioni non positive che poi si legano al brand (malinconia, avvilimento, fallimento sentimentale umano e totale non mi spingono a andare col sorriso al reparto ortofrutta, al più mi evocano i superalcolici di provenienza est europea nei discount).

De gustibus. Al netto di tali valutazioni ritengo che una provocazione debba essere arguta per poter essere definita tale. Altrimenti parliamo di un post social pensato per andare virale, una versione intellettuale del “clicca like e condividi” che Paolo Iabichino prima e Osvaldo Danzi poi hanno ben definito nei loro commenti “family washing” (sulla falsa riga del grenwashing).

La pesca attualmente finisce per togliere Esselunga da un grande imbarazzo, almeno in SERP (nella pagina di risultati Google, per i non avvezzi a terminologie tecniche) e per qualche giorno.

Perché Esselunga, mentre scriviamo di pesche (e mentre le pesche conquistano il motore di ricerca), ha un “piccolo” problema (di 48 milioni di euro di sequestro preventivo) e un’accusa di “sistematico sfruttamento di manodopera” che “dura da numerosi anni e ha comportato non solo il sistematico sfruttamento dei lavoratori ma anche ingentissimi danni all’erario” (scrive il pm Storari motivando il decreto di sequestro lo scorso giugno) e che a colpi di pesche passa in secondo piano.

E quella del lavoro che non va… beh, quella sì che è una questione che distrugge le famiglie, e non ci sono pesche riparatrici che tengano.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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