Editoriale

Youtuber, influencer e altri “mostri”: alla radice della (discutibile) “mancanza di valori”

Il dramma di Casal Palocco meriterebbe preghiere, non l'ennesima disamina su un mondo in cui l'intrattenimento è già cambiato e le cui logiche sono state dettate da quelle generazioni che ora battibeccano su improbabili crisi di valori e culturali.

I fatti: quattro tipi (maggiorenni) appartenenti a un collettivo di youtuber chiamato TheBorderline hanno deciso di fare una cosa stupida tipo prendere a noleggio una auto Lamborghini costosa e stare in giro 50 ore per Roma. Uno di loro, alla guida, ha impattato nella zona di Casal Palocco su un’altra auto, una Smart Forfour, causando la morte di un bambino di appena cinque anni. Un dramma che meriterebbe una preghiera, del silenzio, conforto umano alla famiglia colpita dal tragico lutto. Però c’è l’aggravante, quella che scatena il tribunale mediatico: la stupidaggine è stata fatta per essere poi pubblicata su YouTube. Apriti cielo.

Ci sarebbe tanto da dire, ma davvero tanto. Su come è cambiato il mondo dell’intrattenimento, su come passano il tempo i nostri ragazzi mentre noi eravamo imbambolati davanti alle TV commerciali a guardare pubblicità senza diritto di replica. Poi c’è la questione che basta un cellulare, un po’ di tempo e un’idea e chiunque può produrre intrattenimento: dalle challenge e sfide al limite ai siparietti di Khaby Lame fino alla spaccante satira sul mondo del lavoro di Frank Gramuglia. E riguarda proprio tutto: l’altro giorno stavo leggendo l’intervista a uno dei produttori più famosi del porno italiano, Max Bellocchio, che afferma in maniera abbastanza chiara che da quando chiunque può potenzialmente girare la sua clip hard l’industria pornografica ha definitivamente concluso la sua epoca d’oro.

Il fatto che quindi siano cambiate le regole del gioco non vuol dire in termini assoluti che il gioco sia più pericoloso o che esista un baratro culturale. Fanno sorridere delle affermazioni come quelle del leader di Azione Carlo Calenda che sì, ha ragione da vendere quando dice che sotto i 13 anni non si devono possedere social e tra i 13 e i 15 con supervisione dei genitori. Ma:

  1. la cronaca ci parla di maggiorenni (tutti) al centro del caso;
  2. la supervisione dei genitori prevede che i genitori siano educati al digitale.

Cosa che non è, al momento. Si pensi all’interlocuzione sotto i post della tragedia che diventano violenti finanche nel difendere una mamma solo in quanto tale, solo leggendo titoli. Senza nemmeno leggere la ricostruzione dell’incidente. O attaccando alla giugulare chi commenta sottolineando l’importanza dei dispositivi di sicurezza per i bambini in auto, chiedendosi se forse si sarebbe potuto fare qualcosa di ulteriore per evitare che finisse tutto in tragedia.

Nel mondo dell’urlato, di orde di adulti pronti ad azzuffarsi dopo aver letto una manciata di parole o visto una immagine magari pensata apposta per indignare, in pratica, la supervisione dell’adulto vorrebbe dire dare patenti di guida per stare online, ma gli “istruttori” la patente mica ce l’hanno. Questa scuola è destinata a chiudere presto.

Altri motivi socioculturali da sviscerare, in realtà, non ce ne sono. Trasformare questo dramma in una ennesima e inutile contrapposizione culturale tra giovani senza valori e boomer depositari di cultura e buon vivere non è altro che la riproposizione digitale di un conflitto secolare. I nostri giovani in realtà sono digitalmente migliori di noi e non ci vogliono enormi disamine per scavare nei numeri in cui sono gli adulti quelli più avvezzi a diffondere disinformazione o a cadere nelle truffe online.

Ben diverso è il contesto consumistico in cui tali fenomeni si inseriscono. Perché su LinkedIn ci sono fior fior di ragazzi con lo stesso scopo di lucro di quelli della Lamborghini ma vestiti bene e che promettono guadagni facili anche senza studiare. Una prospettiva alla portata di tutti, dopo decenni in cui anche studiare non ha portato al tanto promesso ritorno economico e l’attuale generazione lavorativamente attiva ne è testimone.

È tutto lì, nella logica di mercato che non prevede più competenza e sacrificio, né tantomeno etica. L’importante è guadagnare e per guadagnare bisogna innanzitutto vendere, vendere fin quanto si può. Vendere tutto, non più solo i prodotti. Vendere formazione, vendere stili di vita, vendere concetti, idee e sogni. Vendere anche modi per aumentare il tempo in cui altri si intrattengono su piattaforme che ti profilano e ti bombardano di inserzioni commerciali per continuare a vendere. Tutto quello che può essere venduto va venduto. E il fatto che questi “fenomeni” siano nati in un mondo orientato al consumo e al capitale, signori, vi stupirà sapere essere colpa di chi li ha anticipati su questo Pianeta.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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