Editoriale

“Trattenere i talenti”: il concetto (sbagliato) che rende insoddisfacente il lavoro

Proviamo a fare invece un gioco diverso: spostiamo il focus, la priorità, su “come fare a far vivere a un italiano bene il suo lavoro”

Si fa un crescente utilizzo del termine “trattenere i talenti”. Come se ogni piccola e media impresa italiana fosse in realtà un club di calcio con la necessità di tenersi stretti i suoi fuoriclasse da sirene milionarie di squadre straniere di proprietà di sceicchi sauditi o magnati russi.

Invece quello della fuga di talenti è diventato un termine di uso comune per organizzare convegni in cui rappresentanti del mondo dell’industria e dell’impresa in impeccabili completi disquisiscono di come fare a frenare questa emorragia di dipendenti che caratterizza questo periodo post-pandemico.

In uno degli ultimi eventi che hanno messo al centro tale trend, organizzato dal Gruppo Piccola Industria dell’Unione Industriali di Napoli, si è evidenziato oltretutto che “l’incentivo economico, ad esempio il premio di produzione, centra l’obiettivo di retention fino a un certo punto”.

Tralasciamo in questa sede l’utilizzo del termine “retention”. Come un novello Edoardo Bennato, parafrasando “Dotti, medici e sapienti”, fra gente importante io che non valgo niente forse non dovrei neanche parlare. Ma dopo quanto sto leggendo, io non posso più stare zitto: “trattenere” è già la parola sbagliata.

Trattenere, nella definizione “Treccani”, non ha quasi nessuna accezione positiva. Tra i suoi sinonimi c’è quello di fermare, immobilizzare, contenere. Insomma, bloccare.

Trattenere un talento vuol dire “bloccare un talento”. Far sì che non se ne vada. Direi che nessuna persona sana di mente voglia andarsene da un posto di lavoro dove sta bene. Dove è ben retribuito, sereno, non stressato, non sul collasso. Quindi ogni dibattito che parte dal presupposto di trattenere è viziato nel fondo: si punta il focus sul far sì che il dipendente non se ne vada, come sta accadendo in maniera massiccia dal 2020 a questa parte.

Proviamo a fare invece un gioco diverso: spostiamo il focus, la priorità, su “come fare a far vivere a un italiano bene il suo lavoro”. Scoprirete così un mondo del lavoro malato, sbilanciato verso il fatturato, lontano anni luce dagli standard comunitari, in un Paese sempre più allergico al welfare aziendale esteso anche a PMI o a queste fantastiche startup su cui andrebbe scritto un libro a parte.

Forse questo permetterebbe anche di comprendere in talune sedi il fastidio che provano neomamme lavoratrici o dipendenti senza un minuto da dedicare a sé quando si sentono “trattenuti” in ambienti marci e malati in un Paese senza questa grande mobilità a onore del vero.

Il cambio culturale parte anche dalle priorità che si danno nel dibattito. Al termine “trattenere” (nonostante) preferirei “risolvere”. Al termine “talenti” preferirei “lavoratori” (il problema è solo tenersi chi produce? E quelli che non sono messi in condizione di farlo?).

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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