Editoriale

Merito e umiliazione, lettera aperta al Ministro Valditara

Gentilissimo Ministro dell’Istruzione e del Merito (?) Giuseppe Valditara,
mi chiamo Enrico Parolisi e sono un giornalista. Le scrivo perché sono rimasto incredibilmente colpito dal suo Elogio all’Umiliazione, che frettolosamente ha derubricato come il più navigato dei nostri rappresentanti istituzionali degli ultimi vent’anni come “ho usato un termine sbagliato“.

Mi viene difficile immaginare come le sue affermazioni, che riporto testualmente:

“Soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto”

Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione (e del Merito)

dicevo, mi viene difficile immaginare che il termine che lei successivamente indica come “sbagliato” non sia stato fortemente e volutamente espresso così come lo ha pensato. Il tutto con il tacito assenso del suo interlocutore, che mi ha riportato indietro al monologo di Elisabetta Franchi e sull’utilità di questi eventi corali ma, vabbé, tralasciamo l’argomento dei carrozzoni in questa sede.

Torniamo all’umiliazione. Un tema a me caro, a molti della mia generazione chiaro. Ci hanno umiliato un po’ in ogni modo a noi, sa? Potrei farle un elenco lunghissimo di momenti in cui mi sono sentito umiliato: contratti di lavoro che ho mandato giù a forza o che non sapevo di non avere, discriminazioni basate sulluogo di nascita che recita il mio documento d’identità rilasciato dallo Stato italiano (e che il suo Partito di appartenenza in tempi non sospetti riteneva canzoncine da canticchiare a Pontida dopo una birretta in compagnia), o anche da piccolo – se proprio ci teniamo a tornare agli anni scolastici – quando venivo sovente bullizzato. Ma mica solo dai baby criminali che poi finiranno a spacciare, come la fa semplice lei, come la fa apparire lei in merito a quanti ai margini della società (per nascita, non per scelta, perché a 13 o 14 anni le scelte che puoi compiere sono ancora limitate) che andrebbero umiliati per poi “far nascere il riscatto”. No, io l’umiliazione la ricordo multisfaccettata e complessa, legata a possibilità economiche e sociali che variavano da quartiere a quartiere, addirittura da strada a strada. Da famiglia a famiglia. Da cognome a cognome.

E proprio in quanto umiliato, non posso ritenere l’umiliazione uno strumento di riscatto. Il contrario di umiliazione è non-umiliazione, lo insegna la logica che si impara a scuola. Ma concedetemi la licenza di utilizzare “dignità” come opposto di umiliazione. Fornire gli strumenti per condurre a tutti una vita dignitosa dovrebbe essere l’obiettivo di questa società. La cultura e l’istruzione sono parte di questi strumenti. Una cosa di cui dovremmo vantarci, come Italia, è che ad oggi nonostante i ripetuti attentati alla scuola pubblica, e la deriva che la stessa – come tutta la macchina pubblica – spesso rischia di prendere, è che è equalitaria. Tutti vi possono accedere. Tutti sono sullo stesso livello. L’obiettivo è quello di formare i cittadini del futuro; non è semplice, ma non credo che nel 2022 la via possa essere l’umiliazione. Badi bene, non ha detto “punizione”. Ma “umiliazione”. Evviva l’umiliazione, per la precisione.

Capisco la nostalgia delle bacchettate sulle mani e del mettersi in ginocchio sui ceci. Mia mamma, orfana di madre e cresciuta in un basso dalla cugina di questa donna, era avvezza a questo tipo di metodi educativi, Ministro. E non è arrivata mai a completare gli studi perché le suore-educatrici le ha profondamente odiate. La sua ribellione era “tirargli le pezze da capa”. Ha condotto una vita amorevole, da madre, ma chissà se oggi (e lo scrivo proprio nella giornata dedicata alla lotta alla violenza di genere, mentre altri esponenti politici inaugurano panchine dipinte di rosso chissà dove) magari non sarebbe altrove con altri titoli di studio o con le ossa meno rotte dagli enormi sacrifici che ha fatto per sopravvivere qui, nel profondo sud che solo negli ultimi anni il suo partito ha (forse) redento.

Ma non ne voglio fare una questione personale, Ministro, perché non lo è. Lei parla di responsabilità dei propri atti nel suo intervento, Ministro. Allora ci dia il buon esempio. Anziché propinarci il classico “ho usato un termine sbagliato” ci regali un più veritiero “ho detto una ca**ata“. Si assuma le sue responsabilità che l’esempio – credo – vale più dell’umiliazione come metodo educativo.

Buon lavoro. Che siamo solo ai primi giorni del nuovo Governo.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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