Editoriale

Gli insegnanti su e giù dal palco (delle lezioni): dubbi e consapevolezze di un mestiere ad alta intensità

"Da qui il dilemma dell’insegnante: se vuole guidare e far pensare i suoi studenti, non può ridurre tutto alla pillola di sapere di quindici minuti, perché deve dare aria ai pensieri; ma se dà aria alle idee e alle domande, la sua lezione è necessariamente studium, impegno, ascolto e partecipazione; può variarne il ritmo, può alternare momenti comici a momenti più seri, può essere interessante e problematico, cercare di ispirare fiducia e desiderio. Ma i suoi studenti spesso sono stanchi e lo sarebbe chiunque anche se lo spettacolo fosse perfetto, il migliore del mondo".

Lo studio è impegno ad alta intensità. Mi rendo conto che seguire le mie lezioni è impegnativo: i miei studenti sono seduti, bloccati in un banco per cinque ore al giorno. Alla prima ora di lezione alcuni di loro non sono ancora del tutto svegli; alla quinta sono spesso già stanchi, come chiunque abbia lavorato quasi ininterrottamente per quattro ore.

L’intervallo di dieci minuti e le pause che si prendono da soli per “andare in bagno” per cinque minuti non sono necessariamente bastanti. Mi metto a posto loro: ascoltare, pensare, capire, interloquire, dialogare per cinque ore di fila ogni mattina, poi tornare a casa e studiare.

Studiare è un lavoro. “Studium” significa infatti “applicazione intensa” animata inoltre da una forte motivazione. Lo studio in aula è un lavoro ad alta intensità, a differenza di molti altri lavori.  E spesso questo non viene considerato. Lo è anche insegnare. Durante una lezione non puoi che restare concentrato per tutto il tempo: se non parli, ascolti, osservi, vigili, valuti, organizzi.

Il docente è colui che indica, che apre la strada, alla scoperta di qualcosa di nuovo. Deve incuriosire e intrattenere, porre le domande giuste, ispirare,  tirare fuori risposte non preconfezionate o meccanicamente memorizzate, ma comunque fondate, logicamente esatte, coerenti. Lavora per aggiustamenti progressivi: opera graduali correzioni, instilla dubbi e problemi e aspetta che maturino.

L’insegnante è come un attore

Quando svolgo una lezione è come se entrassi in un teatro e fossi l’attore che deve coinvolgere il suo pubblico nella rappresentazione. C’è anche necessariamente una buona dose di improvvisazione, basata però su una preparazione accuratissima. E lo spettacolo dura anche due ore, in alcuni casi tre; subito dopo devo andare in scena su un altro palco per un altro pubblico: un pubblico che h già assistito ad altre rappresentazioni ed a volte è decisamente stanco.

Devo inoltre dare un senso a tutto: potrei fare uno spettacolo facile facile, semplificare al massimo, parlare il meno possibile, fare i miei schemi alla lavagna, lasciare che li copino e magari poi a casa li assimilino senza troppi dubbi, problemi e interesse. A volte credo che la didattica moderna, alla moda, vada in questa direzione, che è quella delle prove fatte di quesiti brevi e risposte “oggettive”, vero  o falso.

Ma l’insegnante, colui che lascia il segno, il docente, colui che indica, sa anche che la cultura, ossia l’essere fertili, non vuol dire conoscere le risposte facili, ma avere coscienza della complessità delle cose e della vita, sentirle con interesse, avvertire che sono qualcosa che ci coinvolge, e stimola in noi e nei nostri studenti un desiderio, un amore per il sapere.

Così a volte su un piccolo punto, una frase, un brano io lavoro per aprire un mondo. Lo spiego, lo spacchetto: mi soffermo sul significato letterale, poi in quello più profondo, lo inserisco in un contesto, cerco le analogie più significative, lo connetto ad altro, lo confronto, cerco di indicare a quale domanda stia tentando di dare una risposta, chiedo al pubblico di porsi quella stessa domanda, di trovarne di simili, di riflettere se quella stessa domanda abbia senso; se dica qualcosa anche di ciò che è il nostro mondo, se parli dei nostri dubbi, dei loro. Non mi bastano quindici minuti.

E di fronte ho il pubblico più difficile del mondo: anche se non hanno pagato il biglietto, innanzitutto non sono venuti qui perché lo hanno scelto; e lo spettacolo per loro non è un momento di svago; tra l’altro in cartellone ogni mattina ci sono cinque ore di teatro. Penso a me che non reggo i collegi dei docenti per più di un’ora anche quando mi sembrano meno noiosi del solito.

La stanchezza e l’attenzione

Quindi entro in classe, saluto, faccio qualche battuta, mi faccio spiegare come stanno. Rompo il ghiaccio, insomma, scaldo un pubblico che ha bisogno di respirare. E attendo che, un po’ scomposti in aula, sfoghino la loro voglia di “staccare” parlando ad alta voce, in quello che potrebbe sembrare un momento di assoluta indifferenza nei riguardi del loro insegnante e invece non lo è. Poi, sperando di riuscirci con garbo, come a teatro “suono la campanella del minuto in scena” e con calma e col sorriso  cerco di  recuperare la loro attenzione per iniziare la lezione.

Mentre la svolgo, il mio sguardo corre spesso ai loro visi, alle loro posture: in alcuni leggi l’interesse, in altri il sorriso di chi – pur affascinato – non ha capito nulla, semplicemente si gode l’ascolto; ma alcuni iniziano a sfregare le braccia sulla gamba, rivelandoti di fare uno sforzo notevole per non abbandonarsi come altri, che hanno oramai ceduto e si sono accasciati sul banco, con l’avambraccio a mo’ di cuscino sotto la fronte. In questi casi, sai che devi richiamarli all’attenzione, magari con una battuta, un intermezzo comico, qualcosa che spezzi il ritmo.

La lezione può essere anche molto interessante (non lo è sempre, purtroppo), ma se stai problematizzando è comunque una “recita” lunghissima in cui un attore e la sua voce sono al centro, al termine di una mattina di monologhi teatrali.

Da qui il dilemma dell’insegnante: se vuole guidare e far pensare i suoi studenti, non può ridurre tutto alla pillola di sapere di quindici minuti, perché deve dare aria ai pensieri; ma se dà aria alle idee e alle domande, la sua lezione è necessariamente studium, impegno, ascolto e partecipazione; può variarne il ritmo, può alternare momenti comici a momenti più seri, può essere interessante e problematico, cercare di ispirare fiducia e desiderio. Ma i suoi studenti spesso sono stanchi e lo sarebbe chiunque anche se lo spettacolo fosse perfetto, il migliore del mondo.

Abituato al piacere che mi procurano certe lunghe lezioni in rete (ad esempio quelle del prof. Barbero), so che si può parlare anche per due ore e tenere il proprio pubblico attento e motivato. Ma dopo due ore? Dopo una settimana? Dopo un mese? Se poi c’è anche la preoccupazione di sottoporsi ad un’interrogazione durante l’ora successiva…

Pretendere e comprendere

Così comunque vada mi sento sempre un po’ in colpa: se faccio una bella lezione penso che forse ho tirato troppo la corda e li ho persi per stanchezza. Per inciso, gli studenti che conosco (e non sono pochi in 26 anni di servizio) per lo più sono molto educati e non lo direbbero mai, pur pensandolo.

Se invece la faccio troppo semplice, mi sembra di aver tradito il mio compito, di aver assecondato il luogo comune, e di averlo criminalmente avvalorato, di averli insultato i miei studenti trattandoli da automi idioti. Ogni giorno devo trovare la giusta misura, e la giusta misura è differente  ogni giorno e lo è anche per ognuno dei miei venticinque studenti.

Così ogni volta entro in aula col dilemma: quanto posso chiedere all’attenzione dei miei studenti? Devo pretendere sempre più dalla loro capacità di attenzione, o devo comprendere che c’è un limite oltre il quale farei solo loro danno? Esiste realmente un equilibrio tra queste due opzioni?

Dico questo perché alcuni giorni sono tornato a casa molto contento di aver fatto delle lezioni veramente ben riuscite: profonde, intriganti, accattivanti. Il giorno dopo ho scoperto che non pochi miei studenti avevano confessato ad altri che era venuto loro un gran sonno. E anche se altri hanno confermato di averle trovate interessanti, la mia gioia si è tramutata in un senso profondo di frustrazione.

E infine, c’è anche la mia stanchezza, che a volte mi sorprende perché ne traggo risorse ed intuizioni che non pensavo di avere, ma che esiste anche per me, quando arrivo ancora assonnato, quando ho già fatto lezione per quattro ore, quando ho passato tutti i pomeriggi a correggere o a partecipare a riunioni di cui non comprendo il senso, quando insomma anche io come i miei studenti, mentre faccio lezione, vorrei strusciare la mano sulla gamba del pantalone non vedendo l’ora che finisca.

Ernesto Bianchi

Nato nel Novecento a Napoli, dopo la laurea in Filosofia e due idoneità al Dottorato, è andato a insegnare a Bergamo, vincitore di concorso, perché non voleva chiedere e non voleva accettare raccomandazioni. Ama la cultura e gli piace moltissimo insegnare quando ci riesce. Ci prova da 27 anni, ma nel frattempo ha lavorato anche a cose noiosissime, facendo il vicepreside e il coordinatore di aree e progetti. Ha sempre preferito stare in classe a fare lezione. Tuttavia ha anche un canale di lezioni su Youtube.

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