Editoriale

Grandi dimissioni, grandi ripensamenti e inaccettabili sintesi

Joblist, con un sondaggio online, prova a guadagnarsi spazio (sui media?) e qualcuno sintetizza parlando di "grandi ripensamenti" alle "grandi dimissioni". Salvo invece avvalorare, ad ogni cifra, quanto i dimissionari siano un esercito per tre quarti convinto ancora di aver fatto la scelta giusta

Nella frenesia del riprendere comunicati stampa altrui dipingendoli per fenomeni di costume, spesso e volentieri, si cade nel voler dare ad alcune cose un peso che viene smentito addirittura dalla stessa descrizione dei fatti.

Ci casca il Fatto Quotidiano ad esempio. Che titola “Dopo le Grandi Dimissioni arriva il grande ripensamento“. In contraltare al fenomeno delle great resignation, insomma, ci sarebbe un fenomeno uguale ed opposto. Ma procediamo per gradi.

I numeri (ragionati) delle Grandi Dimissioni

Per Grandi Dimissioni è ormai identificato quel trend che vuole, in uscita dalla congiuntura pandemica Covid-19, i lavoratori volenterosi di cambiare lavoro, per una serie di motivi che vanno dagli obiettivi a lungo corso ai modelli di vita che non sono più disposti ad accettare.

Proviamo a dare una misura del fenomeno su scala italiana: nei primi nove mesi del 2021 erano più di un milione i lavoratori italiani che avevano abbandonato il loro posto fisso (dati: Fondazione Studi Consulenti del Lavoro). Nei primi mesi del 2022 altre 300mila persone circa si sono aggiunte all’appello (dati INPS).

Volendo ipotizzare un numero, oggi potremmo potenzialmente essere intorno al milione e mezzo di italiani che hanno lasciato un posto di lavoro contrattualizzato. Considerando che dei meno di 60 milioni di italiani al 2020 (fonte dati ISTAT elaborati da Truenumbers) ad avere contratto a tempo indeterminato erano 15 milioni (più due milioni e mezzo di tempo determinato), il rapporto che ne viene fuori non è molto lontano da 1 lavoratore su 10 coinvolto nel fenomeno delle Grandi Dimissioni. Il ché ci autorizza a parlare per il nostro Paese di un fenomeno reale, evidente, a cui possiamo dare un nome. Così come lo diede, dopo che il fenomeno si è riscontrato su scala mondiale, Anthony Klotz, professore di management presso la School of Management dell’University College London, che nel maggio del 2021 ha coniato il termine prevedendo una lunga coda per le great resignation.

I numeri (dichiarati) del Grande Ripensamento

Il Grande Ripensamento, invece, ha più il sapore di una trovata da titolo di giornale. Deriva non da studi di trend ma da un sondaggio online condotto da Joblist, che altro non è che una piattaforma di offerte di lavoro online.

Premessa: un sondaggio su un campione è sempre uno spunto di riflessione, fornisce determinati indicatori interessanti da commentare. Ma un campione in questo caso non crea un trend. E, nel caso in questione, il sondaggio arriva addirittura a smentire sé stesso.

Perché il fenomeno del Grande Ripensamento non solo non lo esiste ma chi lo racconta snocciola determinate sintesi che al contrario avallano lo storytelling opposto. Perché sì, sul campione Joblist una persona su 4 dichiara di essersi pentito di aver lasciato il posto fisso. Vorrebbe dire, in soldoni, che 3 su 4 invece ne sono felici, o meglio “non pentiti“. Ma continuiamo: del campione meno di un impiegato su 10 non rifarebbe la scelta di lasciare il suo vecchio lavoro. Poco più di un infermiere su 10 pensa lo stesso. Insomma, parliamo di uno scenario esattamente antitetico al Grande Ripensamento – che tra l’altro nel suo inglesismo è stato già usato (great rethink) per individuare invece il trend che vuole il cittadino del mondo più legato ai concetti di sostenibilità dei prodotti.

Volendo rapportare queste percentuali (in un errato e improponibile parallelismo) all’Italia, poco meno di 400mila persone sarebbero pentite di essersi licenziate, contro un milione e oltre di persone convinte della propria scelta. E anche in questo caso parlare di Grande Ripensamento sarebbe complesso.

L’esigenza di un titolo accattivante

Quello che invece non accenna a cambiare negli anni è la necessità di rendere il titolo di un pezzo, soprattutto online, il più accattivante possibile per catturare quanti più click possibili. A costo, spesso, di forzare un po’ la mano. Nella migliore delle ipotesi, certo.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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