Editoriale

Rispetto

La telecamera è un elemento invasivo: entra senza permesso nelle vite altrui, carpisce dettagli non banali, cattura l’intimità di chi è ripreso. Una delle prime cose che devi imparare per fare per bene il videogiornalista quindi è il rispetto. Il rispetto, quando fai bene il videogiornalista, è fatto quindi di “con permesso”, “le dispiace”, “mi scusi” quando è necessario. Quando è umano farlo. E non conta se davanti hai un criminale, un prete, un genitore che ha perso un bambino o un manifestante in un corteo. Se fai per bene il videogiornalista racconti cosa accade, non ti ergi a giudice e giudicante. Nulla a che fare, insomma, con un certo showbiz che vuole impettiti reporter inseguire persone comuni per strada e tampinarli ossessivamente anche davanti a un lecito “no comment”, indossando le vesti del paladino senza macchia che – tra l’altro – spesso lo si è sedicenti.

La prima volta che mi è capitato di andare a girare immagini a Poggioreale in carcere, quando esercitavo la professione da videomaker, fu impegnativo. Perché il rispetto, stando anche alla legge sulla privacy italiana e a una serie di norme di condotta deontologiche che l’Ordine dei Giornalisti impone e che all’Ordine dei Giornalisti danno ancora un senso, impone che il detenuto non deve essere riconoscibile in quanto tale. È lesivo, spiegano, e hanno ragione. Quindi tutelare la privacy di ogni detenuto che ho incrociato a Poggioreale, se fai bene il videogiornalista e io intendevo farlo, vuol dire coprire ogni segno di riconoscimento. Ogni tratto distintivo. Ogni tatuaggio. E di tatuaggi ne avevano tutti, ne avevano tanti. Vuol dire passare in rassegna le immagini girate, gettare le clip inutilizzabili, provare a recuperare quelle necessarie, ancor prima vuol dire fare attenzione quando si schiaccia il REC.

Chi fa TV su determinate reti queste piccole grandi cose dovrebbe saperle. Per questo è imbarazzante, oltre ogni altro ragionamento in essere, che una nota trasmissione di Italia 1 sbatta il mostro in video in prima serata oscurandone la faccia ma mantenendo bene il resto dei connotati durante la solita rincorsa a favore di camera. Tatuaggi compresi. Tatuaggi evidentissimi compresi. È un caso che si studia prima dell’Esame di Stato: poco conta omettere nomi o volti se la persona è comunque riconoscibile. Figurarsi in un paese, Forlimpopoli, che conta poco più di 13mila anime (quasi un quarto dei cittadini del quartiere Pianura a Napoli, per rendere l’idea). Figurarsi con quei segni distintivi. Forse i responsabili del servizio, quelli che lo firmano, non lo ricordavano o si erano distratti. Chissà.

Il “mostro” in questione, Roberto Zaccaria, in realtà aveva già fatto i conti con la giustizia italiana, che lo aveva riconosciuto colpevole di scambio di identità (si era finto una giovane donna facendo innamorare online un ragazzo) ma non di istigazione al suicidio (il ragazzo in questione si è poi tolto la vita). Il tribunale sommario mediatico imbastito da uno show televisivo (che– come stabilito da Cassazione – non è ritenuto testata giornalistica) invece ha insistito e ha fatto quello che le riesce meglio: correre, tampinare, imbarazzare. Non rispettare.

Oggi le cronache ci avvisano che Roberto Zaccaria, “giudicato colpevole” di induzione al suicidio da “Le Iene” che hanno poi provato a spiegarlo in TV a milioni di italiani, si è tolto la vita. Il tutto mentre nelle stesse ore l’Ordine dei Giornalisti, con un post sgrammaticato (brutta abitudine che tiene il Consiglio Nazionale sulla pagina social Facebook) avvisava che per accedere all’esame da professionista non vi sarà più bisogno del praticantato in una testata. Basterà “dimostrare” di aver fatto il giornalista e poi seguire dei percorsi formativi mirati. Un cortocircuito totale: in uno Stato in cui l’articolo 21 della Costituzione di fatto è interpretato come un via libera per poter scrivere (ovunque e chiunque) esiste un Ordine che regolamenta l’accesso a una professione (con doppio elenco) che però può essere “esercitata” anche da una trasmissione televisiva che non è testata giornalistica che opera fuori dalle più basilari norme deontologiche la cui necessaria osservanza giustifica in buona parte l’esistenza dell’Ordine stesso.

Fermiamoci. Premiamo “Stop”. Riavvolgiamo il nastro. Riscriviamo tutto se è il caso. Ripartiamo.

E ripartiamo dal rispetto.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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