Economia

In Italia i salari bloccati da trent’anni

Inflazione, spirale dei prezzi e disoccupazione, la tempesta perfetta italiana: non sarà sufficiente il salario minimo né il taglio delle tesse sul lavoro a far crescere i salari in un Paese con la più alta percentuale di working poor di tutta Europa

Salari, inflazione, retribuzioni, lavoro. Sono parole che in queste ultime settimane hanno invaso il dibattito pubblico italiano creando, come spesso accade nel nostro Paese, più confusione, contrapposizioni nette, attese di manne del cielo e previsioni di tragedie che un confronto vero capace di far nascere soluzioni concrete e durature.

Per capire il processo economico e sociale che stiamo attraversando bisogna però mettere da parte, almeno temporaneamente, le bordate tra ministero del Lavoro e Confindustria, tra Confindustria e sindacati, tra sindacati e governo e anche tra sindacati e sindacati, e analizzare i dati.

I dati 

Il numero che sta mandando in tilt il nostro sistema economico è quello dell’inflazione che è salita al 6,9%, mai così alta dal 1986. Questo significa, banalmente, che i prezzi sono aumentati pesantemente e in maniera generalizzata. A trainare quest’aumento non è la guerra in Ucraina, o almeno non principalmente.

Il fenomeno inflativo che stiamo vivendo su scala globale è, infatti, un processo strutturale che mette in luce le fragilità del sistema economico internazionale. Questo aumento dei prezzi non è generato da una crescita del Pil o da un’espansione della domanda ma da fattori esterni alle dinamiche di mercato. Per questo l’inflazione diventa il sintomo principale di una distorsione del sistema economico.  

L’erosione dei salari

Ad erodersi in maniera sensibile e veloce davanti ad un fenomeno inflativo così rigido come quello che stiamo vivendo è il poterete d’acquisto, in particolare quello dei lavoratori dipendenti che si ritrovano con le stesse buste paghe ma con i prezzi aumentati. 

In Italia il processo inflativo pesa di più perché Il nostro è l’unico Paese dell’area Ocse che, negli ultimi trent’anni, ha assistito ad una riduzione delle retribuzioni. L’Italia ha infatti registrato una variazione negativa dei salari (- 2,9%) dal 1992 ad oggi, mentre tutti gli altri Paesi mostrano un trend totalmente opposto. In Polonia i salari sono aumentati del 96,5%, in Svezia del 63%, in Danimarca del 39%, Francia, Germania e Grecia hanno fatto registrare aumenti superiori al 30%, il Portogallo del 15,6% e anche in Spagna i salari sono aumentati del 6% negli ultimi trent’anni.

 Dunque un fattore caratteristico del nostro sistema economico è proprio la stagnazione delle retribuzioni a cui si unisce quello del lavoro povero e cioè di quei tanti working poor, coloro che pur lavorando con contratto dipendente hanno un reddito che non supera la soglia di povertà. Sono più di 11 milioni i lavoratori italiani con una busta paga inferiore ai 10 mila euro all’anno. 

A determinare questa stagnazione dei salari italiani, oltre ad una destrutturazione del sistema produttivo che non si è adattata alla globalizzazione, è stata, negli anni, anche la tassazione del lavoro, il cosiddetto cuneo fiscale, quella quota di salario che viene destinata allo Stato. Circa il 47% di ogni retribuzione italiana viene eroso dalle tasse, una percentuale che secondo sindacati e associazioni datoriali non è sostenibile. 

La spirale dei prezzi

Una risposta semplice all’inflazione potrebbe essere quella di aumentare i salari in maniera proporzionale all’aumento dei prezzi ma questo, come ha ripetuto il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, potrebbe invece tradursi in una spirale dei prezzi. I costi degli aumenti salariali andrebbero, infatti, a pesare sul prezzo finale del bene che aumenterebbe, provocando un circolo vizioso di aumenti non dovuti a fattori di mercato ma ad una distorsione introdotta per legge. L’esempio di spirale dei prezzi istituzionalizzata è quello della «Scala Mobile» un meccanismo attraverso il quale, negli anni ’80, gli stipendi venivano adeguati in maniera automatica all’aumento dei prezzi.

La scala mobile ha generato in quegli anni non solo altra inflazione e svalutazione monetaria della lira, facendo perdere valore anche ai depositi bancari, ma ha avuto un effetto di moltiplicatore del debito pubblico, il tutto ha condotto alla perdita di potere di acquisto dei salari. 

I rinnovi dei contratti collettivi

A rendere la situazione italiana ancora più esplosiva c’è il fatto che il 2022 è un anno di rinnovo dei contratti collettivi nazionali di settore. Secondo i dati forniti dal Cnel, saranno quasi 7 milioni i lavoratori che in questi 12 mesi dovranno rinnovare il loro contratto, un processo lungo che prevede un confronto tra Confindustria e sindacati proprio sulle misure per adeguare gli stipendi ai nuovi prezzi. I patti di fabbrica, siglati dalle parti sociali, prevedono che l’adeguamento sia calcolato in base all’Ipca (indice dei prezzi al consumo) depurato dai costi dell’energia.

Si può facilmente immaginare come, in un momento come quello che stiamo vivendo, nel quale i prezzi dei prodotti energetici sono alle stelle, questo indice possa essere abbondantemente inferiore rispetto all’inflazione reale. 

Il 7 giugno l’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) ha pubblicato la previsione dell’Ipca al netto dei costi energetici che per il 2022 crescerà del 4,7%. Dunque, essendo questo il dato su cui basare gli adeguamenti dei contratti collettivi in scadenza, sarebbe facile immaginare che 7 milioni di lavoratori italiani potrebbero avere un aumento salariale del 4,7%, aumento che però non andrebbe a coprire l’inflazione. Si proverà dunque a chiudere contratti con adeguamenti superiori a questa percentuale come già accaduto per quello dei metalmeccanici, rinnovato nel febbraio 2021 con un aumento del 6,5% (112 euro in più al mese), degli edili, rinnovato il 3 marzo scorso, con un aumento del 9,8%, quando l’Ipca era appena 0,8%.

La tempesta perfetta e gli scontri politici

Si prospetta, dunque, una tempesta perfetta per l’Italia e, forse anche per questo, gli animi non si placano e il dibattito resta confusionario e le soluzioni parziali. Il Governo ha infatti previsto un aiuto una tantum in busta paga pari a 200 euro. Uno «sforzo del tutto inutile» secondo Confindustria e sindacati, anche perché, come sottolineano anche molti economisti, il problema è sistemico e non è risolvibile con misure estemporanee. 

I sindacati, dopo una spaccatura, che ha visto Cgil e Uil da una parte e Cisl dall’altra, palesatasi l’anno scorso con le due piazze e i due giorni di manifestazioni separati, non riescono a trovare una voce e un percorso unitario e, anche in questo momento così delicato, sembrano essere rimasti fuori dalla discussione che invece si è rinchiusa in un confronto anche aspro tra Confindustria e Governo. 

La Confederazione degli industriali, da parte sua, ha presentato il suo «Piano per l’Italia» nel quale ha proposto l’idea di arrivare ad un aumento dei salari attraverso il taglio delle tasse sul lavoro. «Una proposta dettagliata – l’ha definita il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi – un taglio del cuneo fiscale sul lavoro da 16 miliardi concentrato sui redditi sotto ai 35mila euro. Il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva raccolto l’idea. Però poi il ministro del Lavoro ha preferito la polemica alla proposta».

Il ministro Andrea Orlando, invece, continua ad esaltare il progetto di salario minimo, sul quale in queste ore l’Unione Europea ha trovato un accordo su una proposta della Commissione dell’ottobre 2020, per adeguarlo in tutti gli stadi membri ad una soglia minima di 9 euro, il che significherebbe per l’Italia l’obbligo di dotarsi di una misura di questo tipo che nel nostro Paese manca ancora. Per Orlando il salario minimo «consentirebbe da subito di elevare i salari di quei lavoratori che oggi sono sotto quanto previsto dai salari più rappresentativi, una risposta che avrebbe un effetto immediato e senza produrre effetti inflattivi fuori controllo».

Le polemiche e le proposte sono però limitate e parziali e la stagnazione dei salari, i rinnovi dei contratti collettivi e l’inflazione non sono processi che possono essere affrontati attraverso strumenti singoli, servirebbe una riforma strutturale del mercato del lavoro capace di ristabilire una crescita di competenze, diritti e ricchezza, sullo stile della riforma del lavoro spagonla. Non sarà sufficiente il salario minimo né il taglio delle tesse sul lavoro a far crescere i salari in un Paese con la più alta percentuale di working poor di tutta Europa, con un Mezzogiorno dove, secondo i dati pubblicati dall’Eurostat in questi giorni, ci sono più disoccupati di lunga durata (501 mila, 758 mila con le isole) rispetto all’intera Germania (497 mila). 

La decrescita dei salari italiani è infatti solo uno dei sintomi di un sistema Paese in crisi che, sotto i colpi di un’inflazione che potrebbe arrivare a due cifre, rischia realmente di non reggere.

Claudio Mazzone

Nato a Napoli nel 1984. Giornalista pubblicista dal 2019. Per vivere racconta storie, in tutti i modi e in tutte le forme. Preferisce quelle dimenticate, quelle abbandonate, ma soprattutto quelle non raccontate. Ha una laurea in Scienze Politiche, una serie di master, e anni di esperienza nel mondo della comunicazione politica.

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