Editoriale

La lotta alla violenza di genere non la si fa a fasi alterne. E soprattutto non la fate voi sui social

L'Italia giustizialista che mostra foto e volti dei sei appena maggiorenni accusati del brutale stupro di Palermo a mezzo social è la stessa Italia annoiata e inciuciona che poche settimane prima ha ritenuto "normale" quella che ora i giornali (i giornali, eh) chiamano la "festa in collina più famosa" del Belpaese e che ha visto un uomo di Stato elencare a una pletora di ospiti accorsi per ben altri motivi tutti i tradimenti della non-più-futura moglie. Nel mezzo, c'è lo strumento digitale che usiamo in maniera impropria e, in entrambi i casi, la privacy delle vittime va a farsi benedire per colpa di un utente web sempre più pericoloso, sempre più lontano dal capire cosa stia facendo online. E noi, di contro, cosa facciamo? Aspettiamo l'8 marzo per dipingere panchine rosse e partecipare a un altro inutile rito collettivo.

Chi mi conosce sa che la retorica della panchina rossa mi ha sempre lasciato perplesso. Commemorare chi ci ha rimesso la vita a causa di atti di violenza vili, frutto di fare retrogradi e degni del peggior maschilismo eteropatriarcale che esista, con una verniciata a mò di imperitura memoria non sposta di una virgola quello che oggi accade in Italia. Le statue si alzano a guerra finita: qui la battaglia è ben lontana anche solo dall’essere realmente affrontata.

Perché l’Italia giustizialista che mostra foto e volti dei sei appena maggiorenni accusati del brutale stupro di Palermo a mezzo social – con ahimé una nuova seria riflessione da porre su come il mondo interconnesso non sappia ancora fare un passo indietro anche e soprattutto per la tutela dell’unica vera vittima di questa storia – è la stessa Italia annoiata e inciuciona che poche settimane prima ha ritenuto “normale” quella che ora i giornali (i giornali, eh) chiamano la “festa in collina più famosa” del Belpaese e che ha visto un uomo di Stato elencare a una pletora di ospiti accorsi per ben altri motivi tutti i tradimenti della non-più-futura moglie.

Sui vostri feed social sempre più imbarazzanti è andato in scena uno spettacolo indegno dell’anno 2023 dove da un lato italiani di mezza età applaudivano all’esposizione del tradimento in pubblico come atto rivoluzionario e coraggioso e non come una palese violazione della privacy della donna, ripresa e finita online alla mercé di un Paese intero pronto a bacchettare costumi sessuali, liceità e moralità di comportamento di una perfetta sconosciuta confondendo la realtà con una puntata di uno di quei reality show tipo “The Real Housewives” dove le protagoniste sono coscienti e pagate per mettere in piazza i fatti loro e permettere a un manipolo di spettatori di spiare dal buco della serratura.

Dall’altro, intanto, vedevate chiedere la forca per i sei ragazzi di Palermo, noncuranti del fatto che il tribunale mediatico è uno dei principali danni che l’Italia ha fatto alla sua giustizia. Noncuranti delle indagini in corso, della presunzione di innocenza, del rischio che non avendo il quadro chiaro della situazione potesse finirci anche qualche persona totalmente estranea alla vicenda per mezzo. Noncuranti, soprattutto, che rivelare nomi e volti dei carnefici equivale a rivelare il nome della vittima.

Non siamo in questa sede a discutere delle legittime opinioni di ognuno ma di una sorta di disturbo da schizofrenia bipolare che caratterizza un dibattito digitale italiano ai limiti della psicopatia. Da un lato la palese violenza che una volta perpetrata non va tollerata (e ok). Dall’altro invece non siamo però in grado di riconoscere un palese atteggiamento passivo-aggressivo nei confronti di un’altra donna, anch’essa violata nella riservatezza, commentando una questione che di interesse pubblico ha veramente ben poco con frasi sferzanti degne del delitto d’onore di un secolo fa. Nel mezzo, c’è lo strumento digitale che usiamo in maniera impropria e, in entrambi i casi, la privacy delle vittime va a farsi benedire per colpa di un utente web sempre più pericoloso, sempre più lontano dal capire cosa stia facendo online. E noi, di contro, cosa facciamo? Aspettiamo l’8 marzo per dipingere panchine rosse e partecipare a un altro inutile rito collettivo.

Perdonatemi, ma non riesco a vederla meno nera di così.

Enrico Parolisi

Giornalista, addetto stampa ed esperto di comunicazione digitale, si occupa di strategie integrate di comunicazione. Insegna giornalismo e nuovi media alla Scuola di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa. Aspirante re dei pirati nel tempo libero.

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