Scampia si “sVela”: i “sognatori abusivi” della periferia al centro della politica
"Il processo di rigenerazione sociale di Scampia è stato possibile grazie all’intesa tra istituzioni e il suo popolo, sinergia che sembrava impossibile ma che poi, come si evince dalla ricostruzione, è diventata l’elemento più importante dell’intero percorso".
Commentare un libro è sempre un grande rischio. Per chi pone domande e cerca in poche righe di “sintetizzare” il lavoro di anni dello scrittore in un file, è difficile quanto rischioso. Se da un lato c’è la volontà del giornalista di provare a concentrare nei titoli e nelle colonne il senso e la “notizia”, dall’altro – quando ci si trova di fronte (o meglio, al filo diretto di un telefono) una donna dalle idee forti e chiare come Monica Buonanno – si spera nell’ardua impresa di poter colmare il divario tra gli interlocutori e i lettori.
Provare a farsi “ponte” verso chi ti legge dell’attivismo e del coinvolgimento emotivo e professionale, che quei minuti di conversazione hanno prodotto, è una piccola grande sfida. Per l’uscita di “Siamo solo sognatori abusivi – Scampia ammaina la Vela”, ed. De Nigris Editori, scritto dall’ex assessore al Lavoro e alle Politiche Sociali del Comune di Napoli, ho potuto mettermi in ascolto di una testimone privilegiata e protagonista del lungo percorso (pubblico e privato) che ha portato allo storico risultato dell’abbattimento della Vela Verde di Scampia.
Per chi come me, e come tanti altri, ha visto nelle “Vele” uno stigma da combattere e superare, questo libro è sì l’esperienza di un lavoro costante, meticoloso, appassionato e combattivo di Monica Buonanno, ma anche strumento e opportunità di comprendere quante problematiche e risorse si siano annidate in una realtà troppo spesso volutamente “ghettizzata” dalla politica e dalla cinematografia.
“La Vela verde”: simbolo e realtà che ci spinge a non dimenticare. Un lavoro di ricostruzione della memoria e riabilitazione sociale. Questo testo è un punto di arrivo o di partenza?
“Il testo è di sicuro un punto di partenza, uno strumento per dire che c’è un altro modo di fare le cose: insieme alle persone, leggendone i bisogni, provando a curvare le norme secondo le necessità e facendo sì che le norme stesse diventino facilitatrici di processi di cambiamento e non cancelli chiusi che inibiscono percorsi di sviluppo locale. Con le politiche urbane, non è mai possibile parlare di punti di arrivo; le città sono fluide, sempre in continuo movimento ed è per questo motivo che ho fatto delle politiche integrate (lavoro, sviluppo, welfare) il punto centrale del mio incarico.
È stato un lavoro di restituzione, di memoria di un luogo e di un popolo che per decenni ha combattuto contro lo stereotipo di Gomorra e della triste verità di piazza di spaccio più grande d’Europa. Ma è stato realizzato un lavoro certosino, non solo con le Istituzioni, ma con le associazioni, la chiesa, il terzo settore che insieme hanno lentamente svelato l’altra faccia di Scampia. Quella nascosta ma costantemente attiva”.
Partendo da quest’ultima dichiarazione, cosa non è stato ancora fatto?
“Piuttosto cosa è stato fatto. E’ stata realizzata la sede del Dipartimento di scienze infermieristiche della Federico II di Napoli, un successo strepitoso se si pensa che dove è progettato il complesso universitario prima c’era una delle vele abbattute. Un successo se si pensa al simbolismo che c’è dietro al fatto che l’accademia, la ricerca, l’alta formazione si sia spostata nel luogo del “male”. Ho voluto descrivere questo processo di migrazione del sapere dal centro alla periferia. Nessuno avrebbe mai scommesso nulla sull’università a Scampia: eppure è successo! Infatti, sulle macerie della vela sorge oggi “il sapere”.
È stata realizzata una stazione della metropolitana, un servizio essenziale per il popolo di Scampia. C’è ancora da fare, ma è stato seminato un nesso indispensabile con la città (scuole, piste ciclabili e la villa municipale). Durante il periodo del mio incarico, momento delicatissimo connotato dalla pandemia, oltre ad essere riusciti ad abbattere “la vela verde” e ad assegnare altri 67 alloggi popolari (senza contare gli altri 200 assegnati nei mesi precedenti), siamo riusciti ad applicare la clausola sociale, ovvero l’azienda che si è aggiudicata l’appalto per l’abbattimento della vela ha assunto cinque lavoratori disoccupati di Scampia. Il significato di queste cinque assunzioni è profondamente metaforico e lo spiego bene nel libro. Persone che sotto quel mostro di cemento hanno vissuto e hanno visto il male con le loro mani – lavorando legalmente – contribuiscono a distruggere quel male di cui in qualche modo sono stati attori per trasformarlo in bene.
Un atto di rivoluzione morale e sociale. Ecco, credo che un’allegoria di spessore che deve essere enfatizzata per la qualità dell’immagine che è restituita: mani e corpi che passano dal male al bene. Inoltre, è stata abbattuta la vela verde, dopo venti anni dall’ultima demolizione e dopo mille rivoli burocratici che apparivano insormontabili e, solo con l’enorme azione della lotta popolare, è stato possibile rimuovere.
Lo evidenzio spesso nel testo: il processo di rigenerazione sociale di Scampia è stato possibile grazie all’intesa tra istituzioni e il suo popolo, sinergia che sembrava impossibile ma che poi, come si evince dalla ricostruzione, è diventata l’elemento più importante dell’intero percorso”.
Cosa c’è ancora da fare?
“Ci sono da abbattere ancora due vele e da rifunzionalizzarne una al fine di renderla uffici per la città metropolitana, c’è da migliorare i servizi di trasporto pubblico, e comunque la filiera dei servizi pubblici. C’è da avviare e consolidare una riflessione sana ed equa sul lavoro per quel territorio. Riflessione che non sia speculative, né strumentale, che non passi né trapassi le campagne elettorali, ma che guardi davvero alla struttura sociale del quartiere, la analizzi e ne tragga le conseguenze.
Nell’opera scritta, ho provato anche a tratteggiare questi elementi dando un minimo di spaccato sociale ed economico da cui emerge un disagio noto, rilevando risorse e determinate peculiarità, come ad esempio una popolazione molto giovane”.
A un figlio della periferia, purtroppo socialmente ancora ai margini di un sistema che conta, che indicazioni darebbe?
“Direi di non mollare, sembra scontato ma è così. Di non cadere alle facili tentazioni. Lo direi a qualsiasi giovane in un territorio ad alto rischio di esclusione sociale ed economica. Le difficoltà, il disagio, le privazioni, possono portare a decisioni diverse. Ebbene, io propongo sempre la strada più difficile, che però è quella che alla fine dà più soddisfazioni: la strada della resistenza, della dignità di chi non si piega al ricatto e alle vessazioni. E’ il percorso che racconto nel libro, l’iter che hanno conseguito le donne e gli uomini del “Comitato vele” negli anni della lotta, e che tutt’oggi seguono. Un percorso che va di pari passo con il sapere, l’invito è di andare a scuola, di proseguire gli studi, approfondire, essere curiosi, chiedere, fare domande senza vergogna. Speriamo di crescere una generazione di adulti consapevoli“.
La periferia, il decentramento: perché è così complicato tuttora comprenderne le risorse senza incorrere al riparo estremo?
“Le periferie delle città non nascono in quanto tali, ma diventano terminali di altro quando iniziano a mancare i servizi essenziali e quando ai cittadini non è consentito vivere in condizioni pari ad altre zone della stessa città. Quando questa situazione s’incancrenisce, quel luogo diventa periferia (ma può essere anche al centro della città, non necessariamente ai limiti o lontano).
Per me periferia è quel luogo dove i cittadini non si sentono identificati con la propria città, periferici con i servizi e con gli interessi. Scampia, come descrivo, è diventata quel che conosciamo quando decine di migliaia di famiglie hanno vissuto in un luogo dove per anni c’erano solo mostri di cemento e persone, nient’altro.
Soltanto mostri di cemento e persone: senza autobus, scuole, servizi di trasporto, scuole superiori. Se c’è volontà di portare servizi, allora significa che si sta investendo in risorse e opportunità. A poco a poco, si perde la connotazione di periferia per assumere la centralità – che può non corrispondere a quella strettamente geografica – per assumere la centralità politica come di governo del territorio”.
La sua militanza sociale e politica sono raccontate in queste pagine. Documenti, testimonianze, atti pubblici e considerazioni private. Quanto lavoro e quanta vita ci sono in queste pagine?
“Il libro è molto intimo, nel senso che rappresenta un pezzo molto importante della mia vita, un pezzo che nei fatti è il cuore dell’esperienza e della militanza sociale e politica. E’ un lavoro “fisico” ed è concentrata tanta vita. Ho voluto molto questo racconto per due motivi. Il primo, per ricordare. Perché quanto accaduto in termini d’integrazione delle politiche con l’abbattimento della vela verde non vada perso come memoria collettiva.
Il secondo, ho voluto dimostrare che un altro modo di fare politica esiste ed è realizzabile ed esattamente ciò pensavo. Guardare ai bisogni delle persone, leggerli, analizzarli nella loro complessità e trovare soluzioni collettive che vadano bene per situazioni analoghe.
Con l’assegnazione di tante deleghe, pesanti, complicate, in un periodo storico difficilissimo, ho sperimentato che è sempre più necessario osservare i bisogni nel loro insieme e non spezzettarli. L’individuo è uno, i suoi desideri, le necessità sono molteplici. Il compito della politica è semplificare la vita delle persone rendendola migliore in tutti i suoi aspetti, con lo scopo di elevare il benessere personale a quello collettivo. Ciò può avvenire solo se dietro alle intenzioni si mantenga una visione integrata delle politiche e non frammentata. Sono un’assoluta sostenitrice del concetto di politiche integrate, in particolare delle politiche sociali, del lavoro e di sviluppo”.
Cosa le ha lasciato tutto questo, più amarezza o più voglia di conquista?
“Di certo la voglia di conquista, il senso di amarezza non mi appartiene. Mi ha lasciato innanzitutto un grande orgoglio che credo traspaia in ogni pagina dl libro. Il fatto di essere protagonista di una serie di eventi storici per il quartiere, per la città, esemplificativi per tutte le periferie del mondo, ancora oggi mi stupisce. Mi ha lasciato quella voglia di fare ancora che si è trasformata nel libro, quel desiderio di far sapere cosa fosse accaduto, di accendere una curiosità, di far capire che si è intrapreso un cammino che può essere utile Roma come a Palermo. Questo per me è un gran valore.
Mi auguro di esserci riuscita, di aver acceso quella scintilla per raccontare e fare ancora. Di sicuro questo libro è solo un pezzo di ciò che è accaduto e che si snoda in mille aspetti. Saranno pubblico e critica a dirmi “se e come” continuare”.
Un lavoro che parte dalla base per una consapevolezza non imposta ma “attiva”. Anni di lotta e di rivendicazioni: chi sono oggi “I sognatori abusivi”?
“I sognatori abusivi sono le donne e gli uomini del “Comitato Vele”, sono nei fatti i veri protagonisti del libro, le persone che hanno accompagnato vivendo direttamente il percorso di rigenerazione del loro quartiere. Sono un Comitato di lotta, nato decenni fa per il volere del primo sognatore abusivo, Vittorio Passeggio, che ha voluto che il suo popolo si svegliasse dal torpore e agisse sulle coscienze dei politici. È stato il primo vero progettista inconsapevole di democrazia partecipata. A poco a poco il Comitato è cresciuto ed è diventato un comitato di lotta per il diritto alla casa e al lavoro, i due diritti fondamentali che io definisco circolari, ovvero senza lavoro non si ha casa e viceversa.
Oggi, il Comitato conta centinaia di sognatori abusivi, ma la particolarità resta sempre la piena partecipazione alle decisioni, dalle più semplici alle più complesse. Nel tempo, ho imparato che siamo tutti sognatori abusivi: chi più chi meno – come racconto nel libro – ha una sua Scampia. La nostra ha sognato in grande e ha voluto che quei sogni si realizzassero. Manca ancora molto, come ho detto prima, ma i sognatori abusivi sono anche caparbi….”