La pizza non bagna Napoli
La pizza non è più sostenibile in Campania. E non certo per una questione di sostenibilità dell’alimento in sé (acqua, farina e prodotti del territorio) ma per un’incapacità totale di fare impresa, sistema, indotto, economia e tutelare i deboli.
Dopo la settimana dedicata alla mozzarella consumata sul palco di Piazza del Plebiscito da Vanessa Incontrada – argomento delicato e che ha richiesto una buona dose di non curanza per evitare di trascendere in risse social da parte di chi sui social un po’ ci lavora, come me – la regina indiscussa della polemica virale è stata la pizza.
Povera, tanto amata pizza mia che ogni tanto diventi motivo di litigio. Ti hanno proclamata Patrimonio dell’Umanità per poi trasformarti in gourmet, ti hanno iniziato a vendere a 65 euro quando da piccolo costavi circa 3.000 lire. Ed è qui che un Flavio Briatore in cerca di visibilità affonda il suo colpo, colpo degno ormai dei chiacchiericci della Zanzara di Cruciani e poco più: è impossibile che la pizza costi 4, 5 o 6 euro. Partendo dal presupposto che no, la margherita non costa 4 euro o almeno non è più così semplice trovarla (l’inflazione c’è, altrimenti la pagherei ancora 3.000 lire), quello che avrebbe dovuto infastidire delle parole del furbo imprenditore (furbo nel senso di scaltro, ma sulla salute delle sue imprese non scommetterei al momento – Billionaire a parte) era quel maledetto, insopportabile sotteso per cui le pizze a Napoli costano poco perché gli ingredienti non sono buoni o perché si lavora a nero o ancora l’allaccio della corrente è abusivo. Trallalero trallalà funiculì funiculà.
All’indomani del virale video di Briatore che ha innescato la polemica, io e i buoni colleghi Federica Colucci e Claudio Mazzone per fmag.it ci siamo presi la briga di chiamare qualche pizzaiolo. Non di aspettare Miccù dell’Associazione dei pizzaioli. Né tantomeno di aspettare il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli che nell’aere ha avvertito l’opportunità di polemica da cavalcare e l’ha fatto, salvo per qualche estrema sintesi giornalistica diventare da consigliere un pizzaiolo, per molti titoli online. Abbiamo chiamato proprio i pizzaioli e abbiamo chiesto loro se è sostenibile fare le pizze a 4, 5 o 6 euro. Più a 6 euro che a 4, in realtà. Ci hanno detto, i pizzaioli, che è sì possibile, addirittura Salvatore Di Matteo (come dimenticare le sue straordinarie frittatine fronte strada al Decumano?) si è pure detto pronto a mostrare a Briatore le fatture.
Di lì a breve, però, la situazione avrebbe preso una piega assolutamente prevedibile: il maestro Gino Sorbillo (che anche avevamo ascoltato per l’occasione) ha sfidato apertamente Flavio Briatore. Pizze gratis in centro, sovraesposizione mediatica e un ipse dixit: la pizza è un alimento popolare. Snaturarlo, insomma, sarebbe inconcepibile. Un duello che finirà, per il bene di entrambe le imprese, su Rai 1 a Porta a Porta di venerdì sera.
Intanto, però, cosa resta della pizza popolare? Mentre a Napoli a restituire luce a un lungomare ormai palcoscenico da fiera (e poco più) ci pensa il Pizza Village, tavole rotonde si susseguivano e con loro i pizzaioli superstar al microfono. Veri e propri vip e opinion leader, con una pletora di fan pronti a chiedere un selfie come si fa con i cantanti e i calciatori famosi. C’era anche Sorbillo, certo. Mentre il tormentone rimbalza sui giornali e arriva al Villaggio, fuori la diaspora si è spostata da imprenditore vs. luoghi comuni sui meridionali a poveri vs. ricchi. Con una prece per l’ennesima mancata occasione di riscattarci, di comprendere, di valorizzare le forze positive del nostro territorio.
Contestualmente, e sempre dal Pizza Village, arriva però un dato che ben ci restituisce in che senso la pizza napoletana è un alimento popolare. La CNA ha infatti rilevato che, dal 2019 al 2021
“per le attività che producono e distribuiscono la pizza – dalle pizzerie alle rosticcerie passando per i locali di asporto e i ristoranti – la Campania ha perso il 41.1% delle sue attività, passando così da 17.436 esercizi ai soli 10.263 perdendo ben 7.173 punti vendita e precipitando così dal gradino più alto della classifica delle regioni d’Italia. Leadership invece conquistata dalla Lombardia che oggi primeggia la graduatoria con 17.660 punti vendita con un incremento del +24,6% e 3.489 nuovi esercizi”.
Allora, forse, Briatore ha ragione quando dice – Covid permettendo – la pizza non è più sostenibile in Campania. E non certo per una questione di sostenibilità dell’alimento in sé (acqua, farina e prodotti del territorio) ma per un’incapacità totale di fare impresa, sistema, indotto, economia e tutelare i deboli. Resistono, certo, quei pizzaioli superstar che corrono in avanti, che hanno trasformato la pizza in gourmet, che sono diventati brand con sedi ben lontane dal Vesuvio (con tutto il mio sincero apprezzamento) e che oggi ci spiegano che la pizza è un alimento popolare.
Povera pizza mia, ancora una volta così buona che non capisco con tutto questo tu cosa c’entri.