In Italia la disoccupazione cala, ma la situazione è ancora nera
I dati di occupazione e disoccupazione sono incoraggianti. Ma va tutto bene? No, secondo l'OCSE: l'Italia è il Paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le economie dell'Organizzazione e a fine 2022 erano al -7% rispetto al pre-pandemia.
L’occupazione aumenta. E la disoccupazione cala: siamo al 7,6%, due punti percentuale in meno rispetto a quanto registrato prima della pandemia globale. Sinonimo che le cose vadano meglio? Assolutamente no. Innanzitutto perché questi numeri (di cui il Governo continua a fare sfoggio ad ogni occasione utile, quasi a voler giustificare la bontà del suo operato) sono comunque “significativamente più alti” rispetto alla media OCSE (che si ferma al 4,8%). In secondo luogo perché anche il dato sugli occupati, sebbene in aumento, è in percentuale inferiore di quasi 9 punti percentuale rispetto alla media OCSE (61% contro 69,9% nel 1° trimestre 2023). Ma, soprattutto, perché in Italia “i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6% nel 2022“. Un calo definito dagli esperti “particolarmente significativo” soprattutto se si considera che, a differenza di altri Paesi, la contrattazione collettiva coprirebbe – almeno nella teoria – tutti i lavoratori dipendenti italiani.
“L’Italia è il Paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie OCSE. Alla fine del 2022, i salari reali erano calati del 7% rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre del 2023, con una diminuzione su base annua del 7,5%”. E questo a prescindere dai dati dell’occupazione”.
L’outlook OCSE 2023
I dati, come i lettori avranno intuito, vengono dal rapporto OCSE 2023. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (di cui fanno parte 38 Paesi, tra cui anche l’Italia). Secondo le proiezioni OCSE in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.
Il rapporto analizza la situazione globale a largo spettro, sottolineando in estrema sintesi che l’impennata dell’inflazione – che OCSE attribuisce ancora in maniera determinante all’aggressione russa contro l’Ucraina – non è stata accompagnata in pratica in nessun Paese da una crescita dei salari nominali. La conseguenza si riflette su quelli che vengono definiti salari reali: diminuiti del 3,8% mediamente nell’area OCSE (dati riferiti ai 34 Paesi in cui i dati sono disponibili).
A pagare questa congiuntura, inutile dirlo, sono le famiglie più in difficoltà la cui riduzione del potere d’acquisto si è tradotta in una “che hanno una “minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi attraverso il risparmio o l’indebitamento”.
Per spiegarla ancora meglio, secondo l’OCSE i profitti aziendali sono cresciuti più rapidamente dei salari in molti Paesi, contribuendo in modo significativo all’aumento dei prezzi e causando una riduzione della parte di reddito destinata ai lavoratori. Nonostante gli interventi governativi a sostegno, questa situazione crea problemi particolarmente gravi per i lavoratori a basso reddito. A differenza di coloro che dispongono di risparmi o possono accedere al credito, infatti, i lavoratori a basso reddito hanno meno margini di manovra per far fronte all’aumento dei prezzi e spesso subiscono un’inflazione effettiva più alta, poiché destinano una quota maggiore del loro reddito all’energia e all’alimentazione.
La soluzione? Si, è quella a cui pensano tutti, anche quelli meno avvezzi alla materia economica. La più banale. Aumentare i salari. “Diverse leve – scrive l’OCSE – possono essere attivate per limitare l’impatto dell’inflazione sui lavoratori e garantire un’equa ripartizione dei costi tra poteri pubblici, imprese e lavoratori. Il mezzo più diretto per aiutare questi ultimi è quello di aumentare i loro salari“.
Poi, quella che sembrerebbe quasi una stoccata all’Italia e al dibattito pubblico: “Aumentare i salari, compreso il salario minimo legale che è fissato dallo Stato“.
Contrattazione collettiva al palo
Secondo l’OCSE i salari minimi nominali hanno “tenuto il passo dell’inflazione grazie a degli aumenti discrezionali o grazie a dei meccanismi di indicizzazione” in buona parte dei Paesi membri. “Al contrario – sottolinea – le retribuzioni negoziate nell’ambito dei contratti collettivi sono diminuite in termini reali, a causa del ritardo legato alla natura scaglionata e relativamente poco frequente delle trattative salariali”.
L’indicizzazione dei contratti collettivi all’inflazione prevista (escludendo i beni energetici importati) indica che i salari minimi potrebbero recuperare parte del terreno perso nei prossimi trimestri. Tuttavia, stima l’OCSE, a causa dei ritardi significativi nel rinnovo dei contratti collettivi (più del 50% dei lavoratori ha un contratto scaduto da oltre due anni) molti lavoratori rischiano di continuare a perdere potere d’acquisto.
L’OCSE sottolinea come i contratti collettivi possono contribuire a mitigare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori e a garantire una distribuzione più equa dei costi dell’inflazione tra imprese e lavoratori, evitando un ciclo di aumento dei prezzi e dei salari. I dati suggeriscono che nelle economie dell’OCSE ci sono margini di profitto per assorbire aumenti salariali, almeno per i lavoratori a basso reddito. Inoltre, i governi dovrebbero riorientare i sostegni forniti nell’ultimo anno in modo più mirato verso le famiglie a basso reddito.