Napoli capitale dello sport: con quali premesse?

Proviamo a non essere disfattisti: se questa candidatura, oltre a essere la solita e inevitabile sfilata di visibilità dei (soliti) noti, può diventare un’occasione – reale – di invertire la rotta ben venga. Ma se per tanti anni Napoli non è riuscita a affrancarsi da sé stessa il problema oltre a essere amministrativo è culturale.

Apprendo con estremo imbarazzo, da napoletano, della candidatura della città in cui vivo e risiedo a Capitale Europea dello Sport 2026. “Lo sport è fondamentale nella vita di una comunità perché rappresenta un’importante risposta ai bisogni di crescita e di socializzazione dei ragazzi e delle loro famiglie” afferma in conferenza stampa – e a ragione – il sindaco Gaetano Manfredi.

C’è una lunghissima nota dissonante però in tutto ciò, che possiamo riassumere a telecamera spenta e fuori dall’Eurovisione (per citare un immenso Massimo Troisi): “noi a Napoli stamm’ ‘nguajate“.

Napoli è passata per Coppa America, Coppa Davis, Universiadi e quasi mai questi eventi hanno lasciato qualcosa sul territorio, né strutturale né in termini di strutture (forse d’immagine sì). E viene quasi da commuoversi pensando che per le Universiadi i fondi utili per un villaggio sportivo siano stati “devoluti” a compagnie di navi da crociera. Quando sprechiamo paragoni con Barcellona (fortunatamente sempre più desueti) si pensi al loro quartiere olimpico nato nel ’92 mentre noi qui facciamo ancora i conti con le incompiute di Italia ’90.

Senza scomodare però i grandi eventi, come dimenticare la disastrosa querelle dello Stadio Collana lunga decenni e ad oggi ancora nelle aule dei tribunali, con metà impianto che di fatto è abbandonato e disastrato e l’altra metà che non ha trovato salvezza nemmeno nella tanto contestata concessione al privato? All’interno dello stadio Maradona, che certo non è quello che sono gli altri stadi-museo delle capitali europee, anche lì la palestra è privata.

Poi c’è quel che resta del Mario Argento, che è finito di recente tra i banchi di Palazzo San Giacomo quando il consigliere Nino Simeone deluso ricordava che nel bilancio nulla era previsto per sanare quella “che è una ferita aperta per la città”. E a proposito di ferite, pensando a un sano jogging all’area aperta come fanno ad esempio i valenciani nella Turia, come dimenticare a pochi passi il Parco dello Sport fiore all’occhiello di Bagnoli Futura, concluso nel 2010 e che già nel 2012 era abbandonato a sé stesso e ad oggi ancora non è mai stato aperto?

Basterebbe poco, direbbe il bambino di Pianura che è in me che festeggiò con tanto di stretta di mano all’allora governatore Antonio Bassolino l’apertura del Parco Anaconda (marmo e basolati con qualche seduta, nulla più) perché finalmente avevamo un canestro (solo uno, non due) nel quartiere. Canestro che, per onore di cronaca, di lì a poco sarebbe stato vandalizzato e portato via. Basterebbe poco, direi in maniera quasi infantile, come qualche struttura pubblica per l’allenamento sul lungomare come siamo abituati a vedere nelle altre città del mondo. Mentre qui stiamo ancora comprendendo cosa farne, del nostro benedetto lungomare. E guardiamo alla pista ciclabile con l’innocenza di chi non sa in fondo che farsene.

Ma proviamo a non essere disfattisti: se questa candidatura, oltre a essere la solita e inevitabile sfilata di visibilità dei (soliti) noti, può diventare un’occasione – reale – di invertire la rotta ben venga. Ben si faccia. E in bocca al lupo a sindaco e squadra. Ma se per tanti anni Napoli non è riuscita a affrancarsi da sé stessa, e ribellarsi a queste logiche e negazioni, il problema oltre a essere amministrativo è culturale. E lo scriviamo dalla regione maglia nera d’Italia per obesità infantile, con buona pace di chi in questa città (e ne sono tanti) crede che sport voglia dire solo i buoni risultati della società di profitto con sede a Castel Volturno gestita da un entourage romano.

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