Scrivi sui social che non vai in vacanza per lavorare? Vuol dire che vuoi sentirti a tutti i costi “fuori dal gregge”

"Chi mette la carriera al centro della propria vita non può distinguere il tempo per il lavoro e per le vacanze", spiega lo psicologo dei social Bernardo Paoli. Che però ricorda: "Lo staccare, l'allentare, il volontario fare nulla va ricercato tutto l'anno, come nella musica si alternano i crescendo e i diminuendo".

Ci risiamo: siamo ormai in pieno agosto e più di un vostro contatto su LinkedIn (il più orientato alla vita lavorativa dei social) ci tiene a ricordare ai suoi follower che “non va in vacanza” perché per un motivo o per un altro “deve lavorare” o “non può mai staccare dal lavoro” per i più disparati motivi. Dal rappresentante commerciale che sostiene che anche in spiaggia può acquisire nuovi stimoli alla consulente legale che risponde a un sondaggio dicendo che userà le vacanze per imparare l’inglese, fino all’articolista e al consulente social che dicono di fare workation, ossia lavoreranno da remoto in luoghi da villeggiatura. Varie sfumature di un fenomeno che però vede di contraltare tutto lo stupore digitale di chi invece non vede l’ora di staccare e di interpretare la vacanza come da sua etimologia latina vacantia, participio presente di vacare: essere vuoto e libero.

Anche in questo caso, noi di F-Mag abbiamo deciso di sentire lo psicologo dei social (e chi meglio di lui) Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta specializzato nei disturbi narcisistici di personalità.

Dottor Paoli, ci addentriamo nell’estate e più di un professionista su LinkedIn sostiene in diverse forme che preferirebbe non far ferie. Alcuni additando motivi di malcelata ansia, altri spingendo sulla necessità di “formarsi” sempre o di portare con sé il lavoro in spiaggia. Come interpreta questa “voglia” di non andare in vacanza?
“Per comprendere a fondo le motivazioni che stanno dietro affermazioni del genere, andrebbero svolte delle interviste ai diretti interessati. Detto ciò, mi risulta che LinkedIn sia frequentato soprattutto da liberi professionisti e da chi investe parecchio sulla propria carriera lavorativa; allora potrebbe esserci un non voler pensare a se stessi come dei dipendenti-che-fanno-delle-vacanze-normali-d’agosto-al-mare, il non volersi categorizzare come simile-a-tutti-gli-altri: “Gli altri vanno in vacanza, io, che sono fuori dal gregge, faccio altro”. D’altronde, chi mette la carriera come priorità centrale nella propria vita, deve fare così. Non puoi distinguere il tempo fra “tempo per il lavoro” e “tempo per le vacanze”; devi invece distinguerlo fra “tempo per sé” e “tempo per gli altri”. Una distinzione in cui il lavoro è sempre e comunque presente: quando dedichi il tempo a te stesso, lo dedichi anche in funzione a migliorare le performance lavorative; così come, quando dedichi il tempo agli altri, il lavoro non è mai fuori dalla porta”,

Il mito del lavoro sopra ogni cosa, nel 2022, è un passo avanti o un passo indietro rispetto a qualche anno fa?
“Anche in questo caso andrebbero cercati dei riscontri in studi sociologici e di psicologia sociale. La mia sensazione è che la pandemia abbia contribuito a far tramontare ancora di più l’idea del lavoro come elemento opposto rispetto al proprio benessere psicologico. Fino a pochi decenni fa non c’era l’aspettativa di stare bene lavorando. L’ergonomia – la scienza che studia come far star bene le persone sul lavoro – è relativamente recente, e in Italia il primo decreto legislativo che parla esplicitamente di ergonomia è del 2008. Fino a pochi decenni fa, la norma era pensare che il lavoro servisse a fare soldi, per poi stare bene fuori dal lavoro. Le persone oggi, invece, si chiedono sempre di più: “Ma, ne vale davvero la pena? Che tipo di qualità di vita mi garantisce questo lavoro con questo stipendio?”. In tal senso, si tratta di un passo in avanti rispetto al vivere il lavoro come elemento integrato nella qualità della propria vita”.

Lo psicologo e psicoterapeuta Bernardo Paoli

A proposito di qualche anno fa, sono tanti che invece tornano indietro nel tempo, perdendosi in meandri in cui i ricordi sembrano nitidamente belli, a rammaricarsi perché non esiste più “la villeggiatura” intesa come un tempo, con famiglie patriarcali per tre mesi a casa al mare. Questo, come tutte le esternazioni in cui l’ipse dixit sembra essere “si stava meglio quando si stava peggio”, a che fenomeno cognitivo va ricondotto?
“È un fenomeno vecchio quanto il mondo: gli anziani che si lamentano dei giovani, e del presente corrotto perché in mano ai giovani, mentre il passato – quando loro erano giovani – quello sì che era un bel momento. Se ne trovano testimonianze nella Bibbia, nei filosofi dell’antica Grecia e su su lungo la storia. Il pensare ai bei vecchi tempi. E’ il bias della “retrospettiva rosea”, il pregiudizio che ci porta a valutare il passato in modo più positivo rispetto al presente e al futuro”.

In ultimo, da cultore della mente e della natura umana, può spiegarci invece perché ogni individuo ha la “necessità” di staccare dal lavoro almeno un po’?
“Rientra fra le necessità umane quella di alternare tensione e assenza di tensioni, operosità e ozio, come nella musica si alternano i crescendo e i diminuendo. È il nostro ritmo vitale, che va rispetto e ricercato su base giornaliera. Il rischio è che, se una persona è sempre in tensione – non respira mai in modo diaframmatico, non allenta mai lo sguardo, i pensieri, i muscoli, il ritmo delle attività – va in vacanza e non si riposa, perché porta le proprie tensioni, concitazioni e ossessioni anche in quel contesto. Lo “staccare”, l’allentare, ovvero il volontario fare nulla, va ricercato tutto l’anno, quotidianamente”.

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