Analizzare le emozioni per comprendere meglio l’animo umano. In questo senso si indirizzano ricerche che analizzano comportamenti all’apparenza scontati, ma che così non sono. Si veda il “piangere di gioia”: si potrebbe definire un dualismo, quasi un ossimoro. Invece stando agli studi dello psicologo e psicoterapeuta Bernardo Paoli, che recentemente ha pubblicato la ricerca “Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita” per Frontiers of Psychology, si tratterebbe addirittura di una risposta del nostro organismo per non impazzire di felicità. Abbiamo chiesto di approfondire l’argomento con F-Mag.
Lei ha pubblicato da pochissimo la sua prima ricerca “Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita”: il pianto e la gioia come sono connessi fra loro?
“Il pianto di gioia è un’emozione particolare: sarebbe più corretto chiamarla “espressione emotiva”, perché le emozioni passano attraverso una modalità espressiva. Ci sono alcune emozioni che hanno delle cosiddette “espressioni dimorfe”, ossia si presentano in una doppia forma. Fra le espressioni emotive dimorfe c’è, per l’appunto, il pianto di gioia: dentro di sé la persona sente una gioia straordinaria, unica, mai provata prima, ma al tempo stesso quella gioia si presenta attraverso un pianto incontenibile, con singhiozzi. Fino ad oggi non era stato ancora proposto un collegamento fra il pianto di gioia e una funzione specifica; questa è l’originalità della mia ricerca. Fino a questo momento il pianto di gioia è stato considerato una “super” gioia, talmente grande che spinge il nostro organismo ad auto-regolarsi attraverso il pianto, l’opposto, per evitare così di farci “impazzire” di felicità”.
Invece, lei cosa ha scoperto?
“Dal nostro punto di vista questa concezione è fondata, sì, ma limitata. Nella ricerca abbiamo trovato dei dati a supporto dell’ipotesi che il pianto di gioia possa essere considerata un’emozione a se stante, connessa a un obiettivo specifico, ossia segnalarci qual è il senso della nostra vita, quali sono le esperienze di vita più significative, che riempiono di senso e di significato la nostra esistenza”.
Un esempio potrebbe essere la nascita di un figlio?
“Esatto. Piangiamo di gioia in svariate situazione, ma soprattutto in due casi: per il raggiungimento di obiettivi e traguardi davvero molto importanti – sportivi, lavorativi, personali, di studio – e quando sperimentiamo una connessione profonda con gli altri. Ad esempio, fra le interviste fatte in India, c’è chi mi ha raccontato che ha pianto di gioia quando gli è stato detto che, a una bambino appena nato in famiglia, era stato dato il suo stesso nome”.
Pensa che valga in modo trasversale per tutti gli esseri umani, oppure vi sia una spinta culturale che rende l’individuo più propenso a manifestare determinate emozioni come per l’appunto il pianto di gioia?
“Sintetizzando, possiamo dire che ci sono due scuole di pensiero: una più universalista-biologica, che sostiene che le emozioni sono specie-specifiche, e quindi diffuse in modo universale nella nostra specie Homo Sapiens; c’è poi una seconda scuola che sostiene che le emozioni e le espressioni emotive sono culturalmente determinate, quindi cambiano di cultura in cultura. Come spesso accade, entrambe le posizioni sono corrette, e raccontano una verità. Ad esempio, i giapponesi che ho intervistato, rispetto agli indiani, piangono meno di gioia, ma piangono lo stesso; questo è culturalmente giustificabile perché, tendenzialmente, la cultura giapponese scoraggia la manifestazione delle emozioni. La cultura giapponese la si definisce “collettivista”, ovvero ha come priorità l’armonia del gruppo. Esprimere in modo troppo esplicito le emozioni, soprattutto quelle considerate negative – come la rabbia e il disprezzo – potrebbe minacciare la coesione del gruppo”.
E invece, cosa accade nelle culture occidentali?
“Nelle culture a carattere individualistico, come buona parte di quelle occidentali, i valori principali sono l’indipendenza, l’interesse personale e il successo; in questo caso le emozioni vengono vissute prevalentemente come esperienze personali, la cui espressione è un diritto dell’individuo. Nel contesto occidentale, si potrebbe dire che è più facile piangere di gioia, perché la manifestazione emotiva è incoraggiata.”
Perché, al contrario, alcune persone sostengono di non riuscire a piangere o di non sapere piangere?
“Dipende molto da persona a persona. La personalità influenza il vissuto emotivo, le decisioni rispetto alla manifestazione delle proprie emozioni e la valutazione delle stesse. Una persona che dà molta importanza alle emozioni tenderà a dire: “Mi dispiace di non riuscire a piangere”. Chi invece, ad esempio, valuta l’assenza di espressione emotiva come un punto centrale, rispetto al suo personale ordine di valori, tenderà ad essere fiero di essere tutto d’un pezzo e di non lasciar trasparire quella che, dal suo punto di vista, appare come una fragilità”.
In base ai risultati della sua ricerca, “Chi non piange di gioia tende a descriversi in modo duro, come una persona molto sicura di sé”. Può chiarire meglio questo concetto?
“Siamo nell’ambito dei tratti narcisistici di personalità, un tema a cui dedico molte attenzioni e che – fortunatamente – viene fuori sempre più spesso, perché siamo immersi in una cultura narcisistica, anche se non ce ne rendiamo conto. Uno dei valori narcisistici è proprio quello della durezza; ad esempio, pensare e dire frasi come: “Non esprimo le emozioni perché farlo è da debole”, oppure “Sono una persona che tira dritto per la sua strada, senza guardare in faccia a nessuno”, oppure ancora “Sono bravissimo a cancellare le persone dalla mia vita”. Nella ricerca, le persone che facevano riferimento a idee del genere, che si descrivevano in modo duro, tendevano a non piangere di gioia. Apro e chiudo una parentesi: il pianto di gioia, comunque, è un’esperienza che accade due/tre volte nella vita. La durezza non facilita il pianto di gioia; nella ricerca è emerso che si piange di gioia – che è una bella emozione, che è l’emozione della significatività della vita – quando si desidera molto qualcosa, ma si ha anche un certo livello di insicurezza, non si è del tutto sicuri di riuscire a ottenere quel risultato. Quindi, si potrebbe
riassumere la questione così: avere una certa dose di insicurezza è segno di salute mentale.”
Lei diceva prima che siamo immersi in una società con tendenze narcisistiche, per cui spesso l’insicurezza dell’essere umano viene valutata come qualcosa di “negativo” e non una spinta al migliorarsi. Quanto, invece, si dovrebbe imparare ad approcciare con serenità l’insicurezza – soprattutto negli ambienti di lavoro o in quelli scolastici?
“Molte ricerche attestano che in azienda, ad esempio, un eccesso di narcisismo nella leadership è un danno enorme, perché tende ad essere poco lungimirante, concentrata sui vantaggi a breve termine, tende troppo al rischio e a sminuire dipendenti e collaboratori. Laddove, invece, è importante costruire una cultura aziendale – ma, in generale, una società – che valorizzi i contributi di tutti, e che valorizzi anche l’insicurezza. Parlare delle proprie insicurezze è un ottimo dispositivo antinarcisistico. Nel narcisismo, invece, prevale il valore della performance, per cui una persona è ciò che produce, è ciò che esibisce. Siamo immersi in un grande bias narcisistico, per cui se si producono buoni frutti vuol dire che si è dei buoni alberi. Ma non è così. Siamo spinti culturalmente a sentirci bene solo se si è prestanti, siamo spinti a convincere il prossimo per convincere se stessi. Ma l’ossessione di essere “i migliori” ci rende peggiori”.
Secondo lei, c’è un problema generazionale da questo punto di vista?
“Credo che sia cambiato il focus rispetto ai valori culturali di fondo. Anche le culture hanno, in un certo senso, una personalità, con specifiche priorità. “Personalità”, “motivazione”, e “priorità” possono essere trattati come sinonimi; chi ha una certa personalità è motivato a realizzare certe priorità. Nel caso di una personalità e di una cultura narcisistica la priorità è “se stessi sopra tutti”: eccellere, essere il migliore, vincere, dominare, essere potenti, efficienti, di successo, essere in cima alla montagna, degli high performer. I nostri genitori, i nostri nonni, probabilmente vivevano in un momento culturale in cui in primo piano si trovavano altre priorità, come, ad esempio, l’etica e il sacrificio. Non è che abbiamo perso questi valori, ma abbiamo culturalmente spostato il focus su altre priorità”.