“Per le donne meno lavoro, meno soldi, meno carriera: tre motivi per dire basta.” Titola così l’articolo di Rita Querzè del 15 settembre 2021 pubblicato sul Corriere della Sera: una profonda riflessione che snocciola, uno dopo l’altro, perché essere donna corrisponde sempre di più al segno matematico “meno”.
“Le italiane sono ultime in Europa in materia di parità sul lavoro (Eige, gender equality index 2019). Non si ha un’idea chiara della dimensione di questa discriminazione sistematica di massa se non si mettono una dietro l’altra le principali disparità di trattamento.
Primo: non sono libere di lavorare. O, meglio: lo sono a parole, nei fatti – soprattutto quelle che hanno un reddito sotto 1.500 euro al mese – sono costrette ad abbandonare il posto da mille ostacoli come la mancanza di servizi e un sistema fiscale che disincentiva il secondo reddito familiare. Il risultato è che il 52% delle donne non lavora.
Secondo: nel privato guadagnano in media il 14% in meno dei colleghi maschi. Perché si trovano nei settori dove le retribuzioni sono più basse (nella formazione invece che nell’informatica, per esempio) e perché costrette ad accettare contratti part time (oltre il 60% del part time femminile è involontario). Ma guadagnano di meno anche a parità di anzianità, orario e titolo di studio.
Terzo: le donne restano ai margini della carriera tanto che l’82% dei dirigenti sono uomini.
Quarto: il lavoro gratuito a casa è ancora al 70% sulle spalle delle donne con il risultato che alla fine – sommando il lavoro gratis a casa e retribuito fuori casa – le donne lavorano un’ora e mezza in più degli uomini ogni giorno“
Essere donna è una costante negativa, in cui il segno meno è onnipresente. E, ad oggi, ritenere questa situazione un dato di fatto quasi ontologico lascia esterrefatti: perché, a parità di competenze e professionalità, in quanto donna, non guadagno quanto un uomo? Cosa c’è nell’essere donna che non va?
Viviamo una vita all’interno di una “discriminazione sistematica di massa” con una percezione solo parziale della portata abnorme della questione di genere a livello planetario. Eppure vorremmo levare alta la voce e gridarlo il nostro basta, come fatto innumerevoli altre volte, e per ben più di tre o quattro motivi.
Ciò che mi stupisce ogni volta che leggo quanto tutti questi “meno” siano una costante della vita di una donna, è la non-reazione che ne segue, quasi come una normale e rassegnata accettazione dello status quo, perché “è sempre stato così”.
I nostri meno ormai fanno parte della vita di ogni donna, come un tratto somatico immodificabile. E se la politica fa (ancora) spallucce e reagisce (ancora) debolmente sarà perché le donne hanno spalle larghe? O abbiamo ancora una possibilità di cambiare questo modo strutturale, costitutivo e fondante di essere sempre “meno”?
Far valere meno una donna significa far valere di più l’altra metà del mondo. E se questa metà del più vive nell’idea di valere giustamente di più, quest’ultima non metterà mai in discussione il privilegio di cui è portatore il suo genere. Né tantomeno vorrà che la metà del meno possa pareggiare il conto sul piatto della bilancia.
Non voglio scrivere alcuna profezia né cimentarmi in una narrazione distopica. Credo però che non consentire alle donne di affrancarsi da questo pesantissimo fardello di meno, significhi, a lungo termine, condannare di fatto ad un’esistenza di minusvalore non solo una parte del tutto, ma l’intera umanità.