La transilienza è un concetto che sta guadagnando attenzione soprattutto in ambiti come la psicologia, l’innovazione, il management e la sostenibilità e può essere intesa come la capacità di un sistema, individuo o organizzazione di adattarsi proattivamente e trasformarsi in risposta a cambiamenti o sfide, andando oltre la semplice resilienza.
Infatti, mentre la resilienza implica una certa resistenza agli shock e il ritorno alla condizione originale o al livello di funzionamento precedente, la transilienza non si limita al ritorno allo status quo, ma rappresenta un processo di crescita e trasformazione, in cui si utilizzano le avversità per migliorare, evolvere e creare nuove opportunità. Ma cosa c’entra col mondo del lavoro e come può essere una “marcia in più”? Vediamolo insieme.
La transilienza: perché è importante
Parlare di transilienza, oggi, significa sottolineare l’importanza di un certo spirito orientato al dinamismo, all’apprendimento e alla creatività, suggerendo che il cambiamento non deve essere visto come una minaccia, ma come un’opportunità per evolversi in meglio.
Nel mondo del lavoro, va da sé, può rappresentare un plus quando si tratta di re-inventarsi nei ruoli, nei contesti e nelle attività: soprattutto nel periodo pandemico e quello post Covid, ha assunto una rilevanza sempre maggiore la capacità di re-agire rispetto alle difficoltà e, al tempo stesso, ha assunto sempre più rilevanza il tema del malessere psicologico legato al lavoro: per molte persone oggi non è più accettabile sacrificare il proprio benessere psico-fisico per la propria professione.
Lo confermano i dati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice in collaborazione con Lifeed, che è stata presentata oggi all’HR Forum da Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice e Chiara Bacilieri, Head of Innovation di Lifeed, dalla quale emerge che il 42% del campione (percentuale leggermente inferiore a quella registrata nel periodo pandemico) ha cambiato lavoro quest’anno o ha intenzione di farlo nel prossimo futuro. E, per il 36% di loro, il motivo riguarda proprio il benessere psico-fisico.
Questo dato è strettamente collegato a quello delle persone che si dicono “pienamente ingaggiate al lavoro” (al 19% del 2024, rispetto al 26% del) e alla percentuale (12%) di chi si dice affetto da Quiet Quitting.
Questo malessere è reso evidente anche dalle organizzazioni. L’88% di loro ha percepito difficoltà nell’assumere nuovo personale: il 54% ha affermato che il numero dei rifiuti delle offerte di lavoro o dei candidati che si ritirano dal processo di selezione è aumentato e il 17% che i nuovi assunti cambiano lavoro dopo pochi mesi dall’assunzione.
“La percentuale di persone che desiderano cambiare lavoro, i bassi livelli di engagement e la difficoltà delle aziende ad essere attrattive sono segnali di malessere del mercato del lavoro. Quello che si sta delineando è un disallineamento tra ciò che le persone vogliono, e si aspettano, e ciò invece che le organizzazioni offrono. Per colmare questo gap è necessario lavorare su nuovi modi per valorizzare le persone, anche nei talenti nascosti, ridando loro motivazione e energia” ha commentato Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano.
Lo sviluppo dell’impiegabilità e la valorizzazione delle competenze
Uno degli obiettivi prioritari della Direzione HR, rilevato attraverso la Ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice, è la riqualificazione della forza lavoro; nel campione però appare che poco più di un quarto dei rispondenti ha piena consapevolezza di come evolveranno le competenze nel breve-medio termine e, conseguentemente, formalizza una strategia per acquisirle e/o svilupparle.
La mancanza di un’analisi preliminare di quelle che saranno le competenze chiave in futuro limita la presenza di iniziative a supporto del loro sviluppo e dell’impiegabilità delle persone: attualmente solo il 24% del campione mette in atto azioni che supportano l’occupabilità futura delle proprie persone, a cui si aggiunge il 12% che lo farà nei prossimi mesi.
L’insufficienza degli sforzi in ottica di impiegabilità e riqualificazione è testimoniata anche dai lavoratori, il cui tema si fa per loro sempre più rilevante. Mentre solo il 30% del campione percepisce di essere pienamente impiegabile, il 64% ha dichiarato che l’acquisizione di competenze e le iniziative a supporto dell’impiegabilità sono elementi fondamentali o molto rilevanti nella scelta di un nuovo lavoro.
La rilevanza delle soft skill come la transilienza
Da qualche anno hanno assunto sempre più rilevanza sul lavoro le competenze soft, che fanno la differenza nelle relazioni interpersonali, nel lavoro di squadra, nella capacità di adattarsi e innovare, nonché nell’organizzarsi in modo efficace in un contesto di continuo cambiamento.
A differenza di quanto accade per le competenze hard, le competenze soft sono molto spesso legate agli aspetti attitudinali del carattere delle persone e possono essere assimilate in contesti molto diversi tra loro, anche extralavorativi.
Le ricerche condotte da Lifeed dimostrano che la maggior parte – tra il 60% e il 70% – delle competenze soft si sviluppano e si utilizzano principalmente al di fuori del contesto lavorativo, in ruoli ed esperienze di vita personale: essere figli, genitori, amici, coltivare hobby e passioni, vivere cambiamenti significativi.
“Portare sul lavoro le competenze trasversali sviluppate nella vita personale, e viceversa, è una meta-competenza che in Lifeed abbiamo chiamato ‘transilienza’. Molte aziende che collaborano con Lifeed – le Caring Companies – hanno compreso l’importanza di abilitare le persone a esprimere appieno il proprio potenziale sul lavoro. Questo ha permesso di colmare il gap di soft skills presente nell’organizzazione, migliorando l’efficacia, il coinvolgimento e il benessere.” ha affermato Chiara Bacilieri, Head of Innovation di Lifeed.
Identificare i ruoli che le persone ricoprono al di fuori del lavoro permette di evidenziarle, creando nuove risorse per l’azienda ma dalla Ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice è emerso che solo un quarto delle Direzioni HR oggi prevede degli assessment per monitorare e mappare le competenze nascoste dei propri collaboratori.
Anche la ricerca sui lavoratori svolta dall’Osservatorio evidenzia che le persone riescono ancora poco a mettere al servizio dell’organizzazione competenze e ruoli appresi in contesti diversi da quello lavorativo (solo il 14%). Le ragioni di tale difficoltà sono da ricercare nella cultura organizzativa e nello stile di leadership dei manager. Poi, solo il 9% dei lavoratori concorda pienamente sul fatto che il proprio manager sia in grado di valorizzare il suo potenziale e solo il 6% ha completa fiducia nella capacità dell’organizzazione di farlo.