L’informazione non dovrebbe essere fast, come il food per intenderci. Andrebbe consumata lentamente con il tempo di assimilarla, la voglia di carpirne il senso e potendo far fondo alle esperienze personali per ricostruire sensazioni, parallelismi, emozioni.
Al momento invece il web sforna notizie come al McDonald si sfornano Big Mac. Notizie tutte uguali, tutte veloci, tutte senza fronzoli. Qualche volta sbavano le salse, qualche volta le patatine cadono dal vassoio ma intanto il cliente consuma, si lascia bombardare le papille gustative e passa avanti.
Informarsi è un processo complesso e non può essere banalizzato come consumo di notizie sensazionali e virali come il web di adesso vorrebbe. L’attività giornalistica è passata in secondo piano: il più delle volte si “riporta”. Ma l’informazione è importante perché un qualsiasi giornalista degno di questo nome (e in Italia anche di un tesserino) sa bene che chi diffonde una notizia in un determinato modo ha solitamente un motivo per farlo. E che proprio per questo ogni “fonte” va presa con le dovute molle.
Così, che succede? Succede ad esempio che Uber Eats decida con un colpo di spugna di cancellare l’Italia dai Paesi dove opera. Motivazione: “Il mercato non decolla”. Giusto o sbagliato che sia conta poco in questa sede: quello che andiamo ad esaminare è come per due o tre giorni circa il messaggio diffuso a web magazine (quasi) unificati è che Uber avrebbe “lasciato per strada” 50 dipendenti (circa). Tutti degli uffici.
Se al posto del giornalista dall’altra parte del bancone hai uno che inforna panini, le domande stanno a zero: servi semplicemente il prossimo big Mac e vai avanti. Ma se hai non dico proprio uno chef de cuisine ma almeno uno chef de garde quando ti arriva la comanda davanti ti chiedi (prima di pubblicare QUALSIASI cosa) se quei 50 dipendenti degli uffici si occupavano anche di consegnare cibo in tutta Italia tra una pratica e una call.
Perché no, non si può leggere (come davvero ho letto): “In Italia l’uscita dal mercato comporta il taglio di 50 posti di lavoro dato che i fattorini sono lavoratori autonomi”.
Ci vorranno almeno 48 ore prima che i sindacati a vario titolo entrino nella partita a gamba tesa, correggendo il tiro dell’informazione (tutta). Dicendo che sì, i licenziati saranno anche 50, ma ci sarebbero 7.000 (settemila) rider coordinati dalla piattaforma con “fattispecie lavorative diverse” che restano improvvisamente privi di reddito e tutele. Perché? Per “la natura del loro contratto” si legge tra le righe della nota congiunta della fu triplice Cgil, Cisl e Uil. Natura che non permetterà loro di accedere a altro “reddito e ammortizzatori sociali”. E questo perché probabilmente il rider libero professionista che serve più compagnie in Italia non esiste, e che la battaglia dei rider per farsi riconoscere in quanto lavoratori (subordinati) come gli altri è nel vivo con vertenze in tutto il Paese e svariati tentativi di intavolare tavoli istituzionali, oltre a quanto sta accadendo a livello comunitario.
Cose che vanno oltre la propria cucina. E oltre l’informazione fast, come il food, che ci sta ingrassando ma che a lungo andare fa anche abbastanza male.