Otto marzo: non fiori, ma diritti e parità

Otto marzo, non fiori ma diritti e parità. E, gentilmente, meno crimini contro le donne.

Torna, puntuale come ogni anno, quel senso di incompiuto che accompagna l’otto marzo.

A ridosso di giornate celebrative come questa si sprecano riflessioni, convegni, pensieri, manifestazioni, scioperi e iniziative. Come una tradizione che si ripete ogni anno, ricordiamo la lotta per i diritti, per il lavoro, per le pari opportunità e per il miglioramento generale delle condizioni delle donna (quasi) unicamente in questo giorno di attesa della primavera, così come noi donne troppo spesso siamo relegate al ruolo di semi che attendono di crescere e sbocciare.

E così restiamo cullate nel terreno caldo e umido della fossa dalla quale attendiamo di scappare: parlando(ci addosso) e discutendo ancora e ancora degli stessi argomenti, senza che mai nulla cambi, si ha come l’impressione di relegare ogni tema serio a puro esercizio di costume e consuetudine, come una sorta di dovere sociale cui tutti sono più o meno tenuti a sottoporsi (politica, istituzioni, grandi società, scuola e così via) per un uso collettivo. E l’otto marzo, signori miei – al pari del venticinque novembre – rappresenta l’apoteosi di fiato sprecato a cui non seguono azioni concrete.

Senza nulla togliere all’importanza delle iniziative di sensibilizzazione, che pure accolgono numerosi proseliti, vorrei lanciare un appello che, in fondo, non è neanche tanto originale: per l’otto marzo vorrei dire basta con i fiori, ma sì a maggiori diritti e parità di opportunità.

In un Paese in cui le donne vengono viste quasi unicamente come angeli del focolare o “sforna figli” dalla politica alla cultura imprenditoriale, passando per la mentalità arcaica che riempie le pagine della cronaca locale, siamo ancora oggetti – non soggetti attivi – di attenzioni spesso meschine imbellettate da iniziative più o meno scadenti, che talvolta si risolvono in sussidi che non risolvono atavici problemi.

Un esempio? Secondo i dati INAPP presentati nelle scorse ore a Roma, dopo la nascita di un figlio quasi 1 donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell’occupazione (il 29% nel Sud e Isole). Motivazione prevalente la conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica (19%). La quota di quante non lavoravano né prima, né dopo la maternità è del 31,8% e del 6,6% quella di quante hanno trovato lavoro dopo la nascita del figlio.

E, a fronte di questa imbarazzante situazione, penso all’aumento – per un solo mese, sia chiaro – della retribuzione del congedo di maternità facoltativo dell’80% (al posto del 30%) a fronte di una durata obbligatoria della stessa di soli cinque mesi, il più basso in Europa, mentre i padri possono gioire di ben dieci giorni (dieci!) di paternità. Penso ai vari bonus per l’occupazione femminile che non fanno altro che drogare un mercato del lavoro complesso, in cui spesso al termine degli stessi non vi è più posto per la componente femminile nelle aziende.

Ancora, penso alla carenza atavica di strutture come asili nido comunali, all’eccesso di obiettori di coscienza negli ambulatori pubblici, ad una malsana mentalità per la quale alla donna si chiede di più, sempre di più, a fronte di una certificata disparità di stipendi. I dati in merito si sprecano: non è forse vero che, nel corso della congiuntura pandemica, a perdere la quasi totalità dei posti di lavoro sono state le donne perché considerate “sacrificabili” nel ménage familiare?

Non solo. Guardiamo ai numeri: secondo i dati diffusi questa mattina dal Viminale proprio in occasione dell’otto marzo,

Augurateci ancora una “buona festa della donna”, che tanto da domani non cambierà nulla. Perché anche qui si potrebbe continuare per ore a scrivere di questo argomento doloroso, ma sarebbero ulteriori parole che lasciano il tempo che trovano. E allora, in occasione dell’otto marzo, lo ripeto: vorrei per le donne meno fiori, ma più diritti e parità. Un augurio che sembra irraggiungibile, impossibile.

Ma, forse, se noi siamo semi, prima o poi la primavera verrà. Anche l’otto marzo.

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