A catturare la nostra attenzione qualche giorno fa fu un articolo del Fatto Quotidiano che titolava in questo modo: “Dopo le Grandi Dimissioni arriva il grande ripensamento“. Ne abbiamo ampiamente discusso in questo articolo (dove abbiamo anche brevemente sintetizzato cosa è il fenomeno delle Grandi Dimissioni numeri alla mano) che è stato ripreso pedissequamente anche da Senza Filtro.
Facciamo una breve sintesi di quanto accaduto: sulla base di un limitato campione di utenti di un sito di recruiting inglese, tale Joblist, la stessa piattaforma informava che 1 utente dimissionario su 4 durante la finestra delle Grandi Dimissioni si sarebbe pentito della scelta di abbandonare il lavoro.
Sarebbe bastato un esercizio di mera ed elementare logica per comprendere che, anche su scala mondiale, se uno su quattro è pentito dovrebbero esservi in giro per il mondo altri tre non pentiti (il 75% contro il 25%). Anche i meno avvezzi alla lettura dei numeri possono facilmente comprendere che il fenomeno del Grande Ripensamento non esiste, se non nella voglia di fare un titolo “accattivante”.
La questione poteva sembrare chiusa lì: un titolo fuorviante, un mezzo fact-checking e possiamo tornare tutti a litigare sulla qualità dell’informazione in Italia. Invece no, perché a distanza di qualche giorno ci siamo resi conto (colpa nostra) di esserci persi quella che probabilmente è stata l’origine del misunderstanding (per dirla alla americana). Si tratta di Forbes Italia.
Perché, se è vero che generalizzare il sondaggio Joblist alla ricerca di un trend è probabilmente definibile come una non certo brillante informazione, farne uscire una stima numerica è anche peggio.
Forbes Italia riprende la sintesi del sondaggio Joblist (dove, per inciso, si legge “Le grandi dimissioni diventano grande ripensamento per qualcuno“), effettuata – ricordiamo – su un campione di 15mila persone in cerca di lavoro.
Sappiamo esattamente che le statistiche sono fatte su campioni omogenei di riferimento rappresentanti la popolazione. Ben diverso è una survey rivolta a uno specifico gruppo di utenti iscritto a una determinata piattaforma che cercano un determinato servizio (in questo caso, occupazione). Insomma, siamo ben lontani dal definire il campione esplicativo della popolazione dei lavoratori statunitensi.
Ciò nonostante, da questa combinazione di informazioni Forbes Italia ricava una stima: milioni di americani sono pentiti di essersi dimessi.
Da dove verrebbe fuori questa stima di grandezza? Ripercorriamo l’articolo. Il “quasi” incipit è questo:
Sono milioni gli statunitensi che hanno rinunciato alla loro occupazione tra il 2021 e il 2022. Solo pochi mesi dopo molti di loro stanno iniziando a guardarsi indietro e a considerare se sia stata la mossa giusta.
per continuare così:
Secondo il sondaggio sulla situazione del mercato del lavoro diffuso da Joblist e realizzato negli ultimi tre mesi su un campione di 15.000 persone in cerca di occupazione, un lavoratore su quattro (26%) che ha lasciato il posto di lavoro afferma di essere dispiaciuto della decisione.
L’unico dato che attualmente in lettura potrebbe evincersi dai numeri snocciolati è che 3.900 iscritti a Joblist e potenzialmente alla ricerca di lavoro hanno dichiarato di non essere contenti di essersi licenziati. Ma se si prosegue si legge:
Negli Stati Uniti, infatti, il problema delle dimissioni di massa sta mettendo in grave difficoltà gli imprenditori. Secondo McKinsey, tra aprile e settembre 2021, 19 milioni di americani si sono dimessi, mentre sono stati 4,5 milioni nel solo mese di novembre, un record storico.
Dando quindi per certo che almeno 23,5 milioni di americani sono dimissionari lo scorso anno, applicando la percentuale venuta fuori da Joblist (su 15mila persone specificatamente in cerca di lavoro) verrebbe fuori che ci dovrebbero essere almeno 6 milioni di americani pentiti (di cui, stando sempre a quanto dice Joblist, almeno un quinto a cui mancano i vecchi colleghi, tanto per dirne una).
Si applicano stime su un campione di almeno tre zeri inferiore per tirare fuori valori assoluti che restano però nel campo del vago (milioni di americani non è una cifra e nemmeno una stima, e vale ben poco giornalisticamente parlando). Un collegamento quantomeno discutibile, ma anche volendolo prendere per buono (e buono non è), non sposterebbe comunque di una virgola la discussione, in quanto 18,5 milioni di americani sarebbero ben soddisfatti di aver mandato all’aria la precedente situazione lavorativa.
L’importanza di un giornalismo “bravo” nella lettura dei dati
Il problema non è circoscritto al fatto in sé. Spesso e volentieri le aziende ricorrono a sondaggi, survey e tirano fuori analisi sapendo che è un buon metodo per entrare (senza pagare il commerciale) tra le pagine dei giornali, soprattutto online. E se è vero che spesso e volentieri alcuni indicatori che emergono da tali sondaggi sono comunque spunto di riflessione o portano a galla argomenti di interesse comune che vale la pena evidenziare, occhio a far diventare tali sondaggi sempre e comunque indicatori di situazioni e trend di massa. Semplicemente perché il più delle volte non lo sono e gli uffici stampa, alla ricerca di un pretesto per essere pubblicati, possono tendere a forzare la mano.
Per questo è necessario che dall’altra parte, dalla parte di chi pubblica, ci sia un minimo di accortezza nel maneggiare tali informazioni. Bisogna a tal proposito ricordare – o suggerire – alcune norme di buon giornalismo da applicare in tali contesti.
- Autorevolezza della fonte: come ricordano diversi manuali di giornalismo, è il giornalista a scegliere la fonte e nel momento in cui decide di pubblicare in qualche modo si assume l’onere di rendere autorevole la fonte stessa. Nel caso in questione, siamo sicuri che Joblist abbia la stessa autorevolezza e penetrazione di – porto un esempio – LinkedIn?
- Scelta del campione: in alcun modo la valutazione può prescindere dal campione di riferimento, che deve essere ben definito e ben raccontato. Questo, ancor prima che principio giornalistico, è un principio statistico: che senso ha fare ad esempio una stima sull’altezza media della popolazione italiana se come campione scegliamo i giocatori di basket? Allo stesso modo, quanto può raccontarci chiaramente il malcontento per aver cambiato lavoro un sito che raccoglie persone che cercano lavoro?
- Interesse della fonte ad essere pubblicata: questo dovrebbe essere un faro guida del buon giornalismo, troppo spesso lasciato a brillare nel buio. Solitamente chi ci racconta qualcosa che interesse ha nel dircelo? Questo vale per la cronaca politica, per la cronaca giudiziaria, per la cronaca nera e anche per questa neonata cronaca aziendale.
- Interpretazione del dato: fatte le dovute premesse sopra citate, il dato è assoluto, ma la sua lettura assolutamente relativa. Forbes Italia avrebbe potuto scegliere di dare peso ai 3/4 di intervistati felici di aver cambiato lavoro: ha scelto scientemente di fare l’opposto (come suggeriva del resto la survey Joblist).
A tal proposito, ci fa piacere ricordare un avvenimento di qualche anno fa, che ben rende l’idea dell’infallibilità del dato, spesso citata anche da importanti osservatori che sostengono che “devono parlare i numeri”. I numeri non sempre parlano in assoluto. Tempo addietro ci siamo imbattuti in dati diffusi dallo Stato italiano sulla violenza di genere. Il rapporto, tra l’altro, diceva che in Campania si registrava il minor numero di denunce di donne picchiate. Con lo stesso dato assoluto in mano, un quotidiano partenopeo titolava con fierezza “Campania ultima per casi di violenza”, mentre un giornale nazionale d’area centrodestra titolava “Campania fanalino di coda per le denunce”. Stesso numero, due letture agli antipodi. Questo dimostra la fallibilità del dato, che va sempre e comunque interpretato e calato in un contesto.