Smartworking, il fallimento: tornare in ufficio per fare le stesse call che facevamo a casa

Negli USA l'hanno definita "la storia del ritorno all'ufficio nel 2022": persone richiamate in presenza per fare le stesse cose che facevano a casa. Le call con il vicino di scrivania sono il paradosso di un mondo che non vuole ancora cambiare ed è rimasto sospeso, tragicamente, a metà transizione.

Per Bloomberg, quello che chiamiamo fallimento dello smartworking rappresenta la storia del ritorno all’ufficio nel 2022. Anche perché il Covid-19 scivola alle spalle, e ce ne accorgiamo anche in Italia dove l’allerta è sempre stata quasi sensazionalistica sul tema: si pensi che, nonostante l’aumento dei contagi di queste ore – va detto a scapito comunque di una minor ospedalizzazione – secondo il sondaggio Repubblica / Demos nell’immaginario collettivo ora il coronavirus è derubricato a influenza mentre fanno paura gli echi delle bombe sull’Ucraina.

Ecco, in uno scenario globale in cui il Covid non monopolizza più il 100 percento delle preoccupazioni pubbliche scopriamo che quella transizione verso un mondo agile e smart (per mesi assurta come lato positivo di una triste vicenda con tutto il suo carico di frasi fatte a corredo) non solo si ferma ma, per assurdo, resta sospesa a metà. Nel senso: ben vengano i mezzi che ci hanno aiutato a lavorare in fase pandemica, come le videocall di Zoom e Teams, ma adesso torniamo in presenza. E quelle call, quelle fastidiosissime call che per mesi hanno caratterizzato il nostro lavoro agile e a cui siamo stati costretti negli spazi domestici, tra un cane che abbaiava e un figlio che passeggiava alle nostre spalle e che magari finiva virale su YouTube, ora sono ugualmente presenti nella nostra quotidianità lavorativa, ma condividendo anche lo stesso spazio di vita col relatore un tempo distante.

Il paradosso delle call nella stessa stanza

“Con il mio team, non tutti andiamo in ufficio negli stessi giorni. Quindi, se abbiamo una riunione, sarà su Zoom, il che è fastidioso”, racconta al magazine americano Maddi Perkins, 26 anni, operante nel settore finanziario in quel di Dallas. “È inutile. Anche quando siamo in ufficio, non collaboriamo più di quanto faremmo appena sopra Slack a casa“.

Dave Murphy invece ha 48 anni e lavora nell’IT a Sacramento. Per lui il tutto è nonsense perché “La direzione è in un’altra città, quindi sarà sempre una chiamata Zoom con il mio manager. Stai cercando di parlare e ci sono altre cinque o sei persone intorno a te che parlano. È un’esperienza orribile”.

Produttività vs. umanità

Il discorso alla fine finisce sempre lì: da un lato c’è chi, ai piani alti, ragiona per indici di produttività. Ai piani bassi, invece, in questi due anni di pandemia ci si è resi conto che – volendo – si può essere produttivi anche comodamente da casa e i mezzi a nostra disposizione lo consentono abbondantemente.

“Chi torna al lavoro – racconta a Bloomberg Brian Elliott, leader esecutivo dello Slack Future Forum , che studia l’evoluzione del lavoro – cerca socializzazione e costruzione di relazioni più di ogni altra cosa. Quando chiedi ai dirigenti, invece, è più probabile che tu ottenga una risposta sulla collaborazione o peggio ancora sulla produttività, quando le persone hanno trascorso gli ultimi due anni a dimostrare che possono essere produttivi lavorando da casa”.

Insomma, un corto circuito c’è ed è evidente. Molto sembrerebbe viziato dall’idea che lavorare in ufficio, per i managing, voglia dire maggiore produttività. Quindi, vedere i dipendenti alle loro scrivanie, ma senza rinunciare a quei mezzi di interazione come le call felicemente sperimentate con esito positivo a casa, per loro sarebbe indice di miglioramento della qualità del lavoro dei dipendenti.

“Affinché una strategia ibrida funzioni bene – racconta Lauren Mason, consulente senior per le attività di carriera presso la società di consulenza gestionale Mercer – le aziende devono essere intenzionali su come e perché le persone stanno tornando al lavoro in presenza. In questo momento, molte aziende nella corsa alla riapertura degli uffici lo stanno ignorando”. 

Smartworking, dopo la proroga si va verso la modifica della 81/2017 (foto di Ekaterina Ershova)

Smartworking: cosa vogliono gli americani?

Bloomberg nel suo articolo cita un recente sondaggio della società di consulenza gestionale Advanced Workplace Associates, che ha mostrato che solo il 3% degli impiegati preferisce lavorare in ufficio cinque giorni alla settimana e l’86% desidera lavorare da casa almeno due giorni alla settimana

Tra i temi ricorrenti citati dai lavoratori c’è sicuramente lo spostamento. Una perdita di tempo e di soldi ritneuta da molti inutile a fronte di poter fare le stesse cose da casa. Anzi, da casa nei propri spazi e senza il vicino di scrivania che ti parla nelle orecchie.

In totale, sono tornati in ufficio circa il 39,5% degli impiegati americani secondo Kastle Systems, che fornisce servizi di sicurezza per gli uffici commerciali. 

E in Italia?

In Italia, dove negli scorsi giorni a sorpresa c’è stata la proroga della procedura e della comunicazione semplificata applicata in fase emergenziale Covid per lo smartworking, il tema torna a più riprese a occupare il dibattito. Non ultimo, l’indicatore offerto dal 21simo rapporto di Great Place to Work delle scorse ore. La classifica premia quest’anno nell’ordine Micron Semiconductor Italia, American Express Italia e Abb Vie Italia (categoria > 500 dipendenti), Cisco Systems Italy, Bending Spoons, Salesforce (tra i 150 e i 500 dipendenti), Biogen Italia, Sidea Group e Insight Technology Solutions (tra i 50 e i 150 dipendenti), Fluentify, Nebulab e Storeis (tra i 10 e i 50 dipendenti).

Ma è interessante ribadire che nella felicità del lavoratore, sebbene in Italia lo stipendio resti chiaramente un indicatore chiave del sorriso del dipendente, entrano sempre più prepotentemente in considerazione altri fattori. Tra questi la flessibilità dell’orario di lavoro, così da poter conciliare meglio le esigenze lavorative con quelle familiari e di tempo libero, che poi è la vera natura del lavoro agile o smartworking ossia scevro da vincoli di tempo e spazio. C’è di più: gli italiani e le italiane vogliono e ritengono importante il clima aziendale poco conflittuale e il rapporto con i superiori.

I gruppi aziendali più “attenti” si stanno in queste ore regolando verso accordi interni per lo smartworking, con forme per lo più ibride e a turnazione (la cui efficacia è ancora tutta da testare, sia chiaro), anche per far fronte alla scadenza del 30 giugno e all’obbligo poi di normare lo smartworking con accordi altrimenti collettivi e di categoria come da modifiche previste all’attuale legge in vigore (l’81/2017 attualmente derogata dalla procedura semplificata). Gli ultimi in ordine di tempo tra i grandi nomi sono Lidl e Hitachi italiane con due modelli diversi: due giorni a settimana per il gruppo di supermercati, fino a 10 giorni al mese per la società hi-tech con la possibilità del lavoratore di gestire i tempi in una fascia oraria che va dalle 8.00 alle 20.00.

Ma, corse in avanti a parte, c’è ancora da capire come dal 1 luglio le vite dei lavoratori italiani cambieranno e in che modo assorbiremo la transizione: se per niente, a metà o nella sua pienezza. Secondo l’AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) il tema è, appunto, capire cosa ci sarà dopo. Lo conferma nell’indagine a cura del suo centro ricerche diretto dal professor Umberto Frigelli e diffusa in queste ore. Secondo questa ricerca, il “37% delle aziende ha già definito una policy per il rientro al lavoro dopo tale scadenza, il 32% le sta definendo mentre il 30% è in attesa di capire se ci sarà un’evoluzione della normativa prima di prendere una decisione”. Insomma, ce n’è ancora di strada da fare.

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