Le ceneri vulcaniche (o i rifiuti industriali) possono essere utilizzate per il restauro dei beni culturali: è lo studio del professor Salvatore Magazù, docente ordinario di Fisica dell’Università di Messina, che ha illustrato le peculiarità di questi materiali innovativi in un workshop, tenutosi al Castello di Milazzo, nell’ambito del progetto Pon ‘AGM per CuHe: Materiali verdi avanzati per i beni culturali’, nell’area di specializzazione Cultural Heritage del Programma Nazionale 2015-2020.
Il prof. Magazù chiarisce come l’attività di ricerca portata avanti si occupi di sviluppare
“materiali ‘green’ di nuova generazione: i geopolimeri ad attivazione alcalina, che possono essere generati a partire da argille, ceneri vulcaniche e scarti industriali, ed essere utilizzati nel restauro dei Beni Culturali, oltre che in svariati altri ambiti applicativi. Questo con un approccio alla ricerca innovativo e interdisciplinare, che consente qualificati interventi di recupero sul patrimonio artistico”.
Ceneri vulcaniche a basso impatto ambientale
Uno studio straordinario, che abbasserebbe di molto l’impatto sull’ambiente per le restaurazioni dei beni culturali di cui il Bel Paese è sano portatore. Infatti,
“Il progetto AGM for CuHe – spiega Magazù – traccia un percorso che, a partire dalle risorse del territorio, attraverso lo sviluppo di materiali di nuova generazione mediante approcci interdisciplinari, mira innanzitutto a interventi di restauro del patrimonio culturale”.
I geopolimeri – come le ceneri vulcaniche – si producono mediante un trattamento a temperature relativamente basse e, pertanto, a basso impatto ambientale. Queste rocce sintetiche sono caratterizzate da una composizione chimica e da una struttura mineralogica simili a quelle tipiche delle rocce naturali con, tuttavia, esaltate proprietà tecniche come la resilienza meccanica, la stabilità chimica e la longevità.
“I materiali studiati – spiega Magazù – sono eco friendly, smart e con ottime caratteristiche tecniche, che li rendono molto performanti rispetto ai materiali convenzionali. Inoltre, riciclando ceneri vulcaniche, o scarti di altoforni, si può ridare valore a materiali considerati rifiuti.
Lo sviluppo di prodotti geopolimerici consente di fornire delle valide alternative ai tradizionali materiali cementizi responsabili del consumo di grandi quantitativi di energia e acqua. Poiché si stima che entro il 2030 l’attività dell’industria cementiera aumenterà la produzione di circa il 25%, lo sviluppo di materiali come i geopolimeri riveste una sempre più crescente importanza”.
Uno sguardo verso l’antico Egitto
A questo riguardo, il prof. Magazù illustra un’ ipotesi sempre più accreditata secondo cui le rocce che compongono le grandi piramidi egizie
“consisterebbero i due tipi di pietra; una proveniente da cave, l’altra generata artificialmente (il geopolimero) e grazie all’impiego delle tecniche spettroscopiche, questa discriminazione risulta oggi possibile. Questa ipotesi spiegherebbe come abbiano fatto i costruttori di piramidi a costruire blocchi di centinaia di tonnellate ricorrendo a impasti sul posto”.
Questa ipotesi spiegherebbe
“perché le facciate esterne delle piramidi siano messe insieme come pezzi di un puzzle che si incastrano perfettamente. I rilievi che emergono da queste ispezioni visive, sono suffragati da evidenze sperimentali ottenute con tecniche spettroscopiche complementari che hanno rilevato la natura sintetica di questi materiali”.
Infine, continua Magazù, non è da trascurare l’impatto positivo sul territorio:
“queste tematiche possono rilanciare alcune attività di ricerca e industriali vocazionali per il territorio determinando anche la crescita di un turismo qualificato nelle cave dell’Isola. Si tratta di siti minerari di pietra calcarea, pomice, tufo, sabbia, argilla e gesso che oggi potrebbero essere recuperati e riconvertiti al geopolimero, creando nuova occupazione e salvaguardando, al tempo stesso, l’ambiente.
Numerosi sono stati i progetti sviluppati in passato sulle argille come “La Via dell’argilla per lo sviluppo e la produttività”, ‘Dal turismo tradizionale a un sistema turistico locale integrato’, il ‘Polo turistico Tirreno centrale’, ‘PIT 33 ‘Nebrodi’ che hanno interessato diversi comuni della provincia di Messina.
Cave di argilla e antichi siti industriali, coadiuvati da laboratori al servizio delle aziende che operano sul territorio, potrebbero sostenere le aziende con attività di ricerca e sviluppo. E’ il caso delle fornaci Hoffman di Venetico (Me), che possono diventare luoghi di ricerca, sviluppo e attrazione turistica; altrimenti si rischierebbe la perdita irrimediabile della storia e della memoria di questi territori”.