“Altro che Grandi Dimissioni”, ecco perché lo storytelling non convince

Che senso ha parlare di prospettive e sogni quando in Italia un terzo dei lavoratori è working poor? E a mettere una pietra sul dibattito due esperti di HR

Da un lato, lo stucchevole termine “Great Resignation” che è diventato di voga anche a mezzo stampa: le Grandi Dimissioni italiane sono un fenomeno da pandemia (e post pandemia) che viene stiracchiato qui e lì con connotati motivazionali di dubbio gusto e di dubbia provenienza. Parliamo di un esercito di oltre mezzo milione di italiani (tra i soli mesi di luglio e settembre 2021) accomunato dall’aver comunicato tramite INPS l’interruzione volontaria del rapporto di lavoro.

Dall’altro, però, c’è un dato che viene per l’ennesima volta ribadito da uno studio: parliamo di quello degli esperti scelti dal Ministero del Lavoro per un ulteriore ritratto della situazione lavorativa italiana. In questo bel pezzo di Claudio Mazzone per il Corriere del Mezzogiorno, la fotografia è lampante:

“Quello della povertà lavorativa è un fenomeno globale che in Italia, però, ha assunto dimensioni dilaganti. Nel dicembre scorso, il ministero del Lavoro ha commissionato uno studio a un gruppo di 8 esperti, coordinati dall’economista Andrea Garnero, con l’obiettivo di analizzare la portata del fenomeno dei working poor nel Paese. Dalla ricerca è emerso che il 32,4% dei lavoratori italiani percepisce un salario sotto la soglia di povertà“.

Claudio Mazzone, Corriere del Mezzogiorno

Che senso ha, quindi, parlare di una presunta mobilità lavorativa quando la situazione del mercato del lavoro in Italia è una tragedia?

Un moto di ribellione contro il mercato del lavoro

Se guardiamo quindi all’intero panorama, più che pensare a giovani che “inseguono sogni ed ambizioni personali”, come nello storytelling spesso proposto sui social e magari condito da improbabili condizioni di smartworking in luoghi paradisiaci come le Canarie, possiamo quindi contestualizzare il fenomeno delle Grandi Dimissioni come un moto di ribellione a condizioni di precarietà o a condizioni di lavoro imbarazzanti.

Basti guardare agli ultimi dati Istat sull’occupazione per comprendere che nel paniere degli occupati stanno confluendo lavoratori sempre più precari, sempre più a termine, sempre meno tutelati. A questo punto, più che parlare di fenomeno sociologico possiamo parlare di una bolla che esplode. Complice, certo, la pandemia. Che ha solo acceso una miccia già lunga e imbevuta di benzina.

L’opinione degli esperti di Reverse

Per questo è bello leggere un’opinione qualificata che sposti il focus su una realtà più simile a quella che gli italiani percepiscono, con meno filosofia esistenziale e più fatti reali. In questo caso, a esporsi pubblicamente sono Daniele Bacchi e Alessandro Raguseo, alla guida di Reverse. I due esperti di HR, da una posizione privilegiata (e sicuramente di interesse), scolpiscono nel ferro qualche verità quasi assoluta.

“Bisogna fare attenzione – spiega Bacchi – a guardare i dati dalla giusta distanza. Non è facile intendere realmente la portata di questo fenomeno in Italia perché i dati di cui disponiamo sono troppo poco recenti e soprattutto aggregati in modo tale che sia difficile analizzare tutte le diverse variabili, come ad esempio le fasce d’età o le aree geografiche che più hanno interessato le dimissioni”. “Se guardiamo poi l’altro lato della medaglia – aggiunge Raguseo – ci sono realtà che stanno assumendo. Capovolgendo quindi il punto di vista potremmo parlare di Grandi Assunzioni”.

Fatte queste dovute premesse, però, l’opinione espressa è la seguente: “Dal confronto dei dati, appare più chiaro che le persone non stanno lasciando il lavoro per inseguire i propri sogni e dedicarsi alle proprie passioni, piuttosto hanno deciso di lasciare l’attuale posto di lavoro per uno migliore. Qualcosa di più plausibile rispetto a un certo racconto motivational o choosy e che ben si sposa con una situazione del mercato del lavoro italiana che definire difficile è un eufemismo e che raggiunge picchi al sud (in Campania oltre il 42 percento dei lavoratori è working poor).

“In questo contesto – continua Raguseo – risulta necessario per le aziende adottare delle misure per evitare una vera e propria emorragia di talenti, sempre meno disposti a dedicare la propria vita e la propria esperienza ad organizzazioni che non valorizzano a sufficienza il loro lavoro e che non incarnano i valori della società“.

Sempre meno lavoratori, insomma, vogliono fare del sacrificio all’azienda la loro ragione di vita e il work-life balance diventa componente di valutazione al pari di altre variabili più di voga nell’epoca del boom economico e dei nuclei familiari monoreddito.

Exit mobile version