Si può (finalmente) togliere il velo alla mercificazione del lavoro?

Sollevare il velo sul salario minimo significa pensare alle povertà e non solo alla povertà lavorativa

Si stanno finalmente alzando due veli. Il primo, il salario minimo; il secondo, la necessita di integrare le politiche al fine di erogare al meglio servizi e misure a cittadini e imprese.

Entrambi i temi sono stati affrontati dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali martedì scorso durante la presentazione della relazione sugli interventi di contrasto alla povertà lavorativa in Italia. Un gruppo di esperti ha lavorato al documento, fornendo un’analisi del contesto e descrivendo cinque proposte a supporto della riduzione del fenomeno della povertà economica (Garantire minimi salariale adeguati, Rafforzare la vigilanza documentale, Introdurre un in-work benefit, Incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese, Promuovere una revisione dell’indicatore UE di povertà lavorativa).

Il documento probabilmente avrebbe necessità di essere diffuso maggiormente per avere anche ritorni in termini di riflessioni e ragionamenti aggiuntivi o consequenziali sia da parte delle Istituzioni pubbliche che a vario titolo sono coinvolte sia da parte di studiosi, esperti, policy maker che producono una quantità di informazioni e proposte sugli argomenti lavoro, mercato del lavoro, disoccupazione, povertà.

La povertà lavorativa non è solo la povertà collegata a salari bassi. Pensiamo ad esempio alle ore e alle settimane lavorate durante un anno,  al part time involontario, al concetto di fiscalità e di trasferimenti. E, ancora, pensiamo a quanto la povertà lavorativa influenzi altre sfere della vita delle persone: dalle scelte sul costruire una famiglia a quelle legate alla casa, alla salute, all’istruzione e alla formazione.

Sollevare il velo sul salario minimo significa pensare alle povertà e non solo alla povertà lavorativa, tant’è che è stato tabù per decenni ed era davvero inaccettabile che nel nostro Paese non se ne parlasse o se ne parlasse solo in un dibattito mediatico attraverso cui si rischia la polarizzazione delle informazioni. Va detto che siamo tra i (pochi) Paesi europei senza un salario minimo legale insieme a Svezia, Austria, Danimarca e Cipro e dobbiamo fare i conti con le disuguaglianze che all’esito della crisi pandemica hanno subito un drastico e tragico aumento, con i circa nove milioni di lavoratori poveri, con l’aumento della mobilità del lavoro, con la crescente precarizzazione del lavoro e la conseguente contrazione della sindacalizzazione, con le difficoltà delle donne ad accedere o reinserirsi nel mercato del lavoro, all’insopportabile divario territoriale tra Nord e Mezzogiorno.

Il lavoro povero, la precarietà, la disoccupazione femminile, i contratti pirata, la malagestione del lavoro sulle piattaforme digitali sono tutti esiti dell’approccio al lavoro dell’ortodossia neoliberale: il rapporto di lavoro nella prospettiva della mercificazione del lavoro stesso.

La spinta progressista verso il salario minimo deve tenere conto di nuove regole nel mercato del lavoro, di tutele ai lavoratori più fragili, del superamento di quel lavoro povero che, altrimenti, a breve si può trasformare in povertà.

Dal canto mio, non finirò mai di pensare, credere, scrivere, raccontare che il velo che impedisce l’integrazione delle politiche non solo va alzato ma va spazzato via con tenacia e convinzione. Davvero non è più possibile che si pensi che le politiche non abbiano agganci l’una con le altre, che il lavoro possa non guardare al sociale e che il sociale possa prescindere dalla casa, dall’istruzione e dalla formazione o che lo sviluppo non sia allo stesso tempo seme e frutto di una intelligente e condivisa allocazione di servizi e misure.

E non più, la mia, solo una riflessione avviata ormai sette anni fa nell’ambito dello studio e dell’applicazione degli spazi di prossimità, ma nel corso del mandato politico ho avuto modo di sperimentare come l’integrazione delle politiche faciliti il lavoro del decisore e migliori la vita dei cittadini.

Ancora oggi, a distanza di un anno, sono ricordata (e con me lo staff ed i dirigenti con i quali ho lavorato) come l’assessore che in alcuni casi ha iniziato e in altri ha portato a termine interventi che hanno segnato pagine importanti; l’assessore della stabilizzazione dei LSU dopo 25 anni di precariato pubblico, dell’abbattimento della Vela Verde di Scampia dopo 40 anni di disagio abitativo e sociale del popolo di quella parte di Napoli etichettata solo come la parte sbagliata della Città, dell’applicazione della clausola sociale ai contratti di abbattimento e ricostruzione, della promozione dei “quartieri dell’innovazione”, dell’assegnazione degli alloggi popolari a via dell’Odissea, dei lavori al Centro di Prima Accoglienza ed alla Casa comunale per Anziani, del PON Città Metropolitana come strumento per migliorare davvero la qualità della vita a Napoli, dell’istituzione dell’albo per le tutele che non esisteva proprio, delle lotte per il lavoro, a iniziare dalla vertenza Whirlpool che è ancora una ferita aperta, a quella dei lavoratori MetroNapoli fino alla sottoscrizione della “Carta dei Rider”, della battaglia per la stabilizzazione nel Comune di Napoli dei lavoratori REI/RDC, della sistematizzazione delle procedure per gli assegni di cura e per i progetti del “Dopo di Noi”, dei bonus alimentari gestiti in modo digitalizzato e assolutamente innovativo, del passaggio della nostra Città dal 78° al 34° posto dell’ICity Rank, della difficile modellizzazione di un processo a sostegno delle persone senza dimora, della creazione e consolidamento di una fitta rete di relazioni a sostegno dei diritti fondamentali che hanno sempre guidato il mio lavoro.

Sono ricordata come l’assessore visionario perché ho voluto fortemente che non ci fossero segmentazioni nell’applicazione dei diritti: il cittadino è uno e va “servito” come tale, leggendone i bisogni in modo organico e complessivo.

L’intuizione condivisa dal Sindaco di tenere insieme Lavoro, Sviluppo, Politiche sociali, Informatizzazione e digitalizzazione, Risorse europee e Politiche per la Casa, è stata una enorme fatica per me e per chi lavorava con me, ma seguiva un indirizzo preciso al quale, all’epoca,  ha guardato tutta Italia con molta attenzione: le povertà, le difficoltà, i disagi, vanno affrontati tenendo presenti in modo orizzontale tutti i servizi e tutte le misure a sostegno ed adottando, di volta in volta, quelle necessarie.

È passato un anno, sono tornata subito al mio lavoro che amo. Non ho rimpianti. Rimane la convinzione di aver seminato bene.

Exit mobile version