Gli italiani sono un popolo di creduloni, bombardati da fake news, tentativi di phishing, truffe, spam? Navigare in rete spesso diventa un vero e proprio pericolo per i dati personali e sempre più persone – ricorderete tutti la storia della finta mail dell’Enel capitata a Corrado Augias, che ne scrisse anche su Repubblica “indignato” per il mal servizio fornito dal fornitore di energia – finiscono per farsi raggirare. Tanto che perfino l’INPS ha chiarito in questi giorni quali sono gli account web e social originali dell’Ente di Previdenza e diffuso un video su come non cadere nelle trappole del web.
Chiaramente, quelli riportati sono solo esempi: basta essere iscritti ad un paio di siti – fra cui i social network più famosi – per rendersi conto della quantità di email o sms di spam con improbabili guadagni, link cui cliccare, truffe su whatsapp, richieste di denaro per amici e parenti o finanche la possibilità di fittare appartamenti meravigliosi a prezzi irrisori (questa mi è capitata personalmente qualche anno fa, quando cercavo casa) per poter cadere vittima di un tranello parzialmente ben architettato.
Ma perché accade? Non la truffa in se, che è un fenomeno vecchio come il mondo. La domanda che mi pongo è: perché siamo portati a credere (quasi) a qualsiasi cosa ci capiti davanti, senza prestare attenzione?
Una delle cause è sicuramente da attribuire alla scarsa alfabetizzazione digitale in cui riversa il Bel Paese. Secondo i dati diffusi da Pandasecurity a luglio dello scorso anno, in Italia vige un altissimo tasso di analfabetismo digitale (che spesso diventa anche funzionale): siamo attorno al 79% di “ignoranti” del web. Stesso dato confermato dall’OCSE, che – per il rovescio della medaglia – evidenzia come solo il 21% degli italiani abbia un livello di alfabetizzazione digitale sufficiente.
Una situazione, insomma, non proprio positiva per l’Italia: ma se siamo un popolo di creduloni, probabilmente, non è (solo) colpa nostra. In questi anni, infatti, al di là dei roboanti annunci per la transizione digitale del Paese – attualmente fra i nuovi assetti strategici dell’attuale Governo Draghi – e la pioggia di fondi europei che ci sono piovuti addosso senza lasciare tracce, è mancata una cosa fondamentale: la formazione all’utilizzo di internet, soprattutto per chi non è un nativo digitale.
E no, non parlo di quelle scarse due ore mensili nell’intero programma scolastico dedicate all’informatica: i ragazzi di oggi – senza voler generalizzare – nella maggior parte dei casi nascono già con una buona connessione internet a casa (anche se, pure qui, bisognerebbe aprire un dibattito sul digital divide e le possibilità di accesso alla rete e alle strumentazioni informatiche). Se, ancor di più, la pandemia ha mostrato un dato, questo è la difficoltà reale di connettere intere aree del Paese e soprattutto fasce della popolazione – in particolare, quella di mezza età e i più anziani – non solo nell’utilizzo tecnico degli strumenti informatici ma anche sul “come si vive” su internet. Non è colpa loro: in molti casi, è uno strumento che non appartiene all’ecosistema generazionale e culturale, soprattutto se si è svolta una professione o un mestiere che non ha compreso fra gli strumenti a disposizione l’utilizzo del pc.
Forse, allora, prima di parlare di rivoluzione 1Giga per l’Italia, di 5G e di iper connessione in tutto il Paese, andrebbe investito qualche fondo – reale, non a pioggia, non per i soliti Enti che fingono di erogare formazione – nel fornire gli strumenti di conoscenza, comprensione e divulgazione di internet e su internet al popolo italiano.
Che, altrimenti, continuerà ad essere bollato come un webete mentaniano, credulone e truffato, senza possibilità di riscatto.