Donna, francese e ricercatrice in Italia. E soprattutto fresca vincitrice dell’Armenise Mid-Career Award, una borsa da 200 mila dollari messa in palio dalla Fondazione Giovanni Armenise Harvard, un’organizzazione che sostiene la ricerca di base ad Harvard e in Italia. Stiamo parlando di Marie-Laure Baudet, professoressa associata dell’Università di Trento. Con lei, ricercatrice straniera in un paese dove la fuga dei cervelli è un problema molto sentito, parliamo della ricerca in Italia e di cosa si può fare.
Partiamo dalla sua ricerca e dal riconoscimento appena ottenuto.
“Mi occupo di microRNA e del loro ruolo nello sviluppo delle connessioni neuronali. Il riconoscimento ottenuto, in questa fase della mia carriera, è importantissimo. Non solo mi consentirà di continuare la ricerca, ma anche di allargarla all’RNA circolare. So che per chi non è esperto sembrano cose lontanissime dalla vita di tutti i giorni. Ma il funzionamento di queste molecole potrebbe avere risvolti importanti sia per capire lo sviluppo neurologico, sia per prevenire e curare le malattie neurodegenerative”.
Lei ha studiato in Canada, poi ha fatto ricerca a Cambridge, come mai è venuta in Italia?
“Molto semplice: ho vinto nel 2012 una borsa di un milione di euro. Ma non è stato solo quello. Oltre ai fondi, quando sono arrivata in Italia era in corso presso l’Università di Trento il reclutamento di tanti ricercatori con un approccio aperto e molto meritocratico. Quindi anche lo spirito del progetto mi ha spinto a venire in Italia”.
Lei è straniera e fa ricerca in Italia, mentre molti italiani vanno via, come si fa a contrastare la fuga dei cervelli? Cosa manca?
“Nella mia esperienza, la cosa che mi ha colpito di più quando sono arrivata qua è che non c’è un’agenzia governativa che finanzi in modo persistente e prevedibile i gruppi individuali nella ricerca di base. All’estero questa è una prassi consolidata. Ma se non avessi vinto la borsa di Harvard anch’io avrei avuto tanta difficoltà a continuare la mia ricerca. Almeno che non mi fossi aggregata a ospedali o centri di ricerca per progetti più grandi, abbandonando quindi la mia linea di ricerca. Credo sia questo il limite del modello italiano. Purtroppo i giovani vivono sulla loro pelle la sofferenza dei docenti / ricercatori durante la loro tesi e molti studenti programmano di andare via già per il master. Difficile che ritornino dall’estero ed è un peccato, perché il sistema formativo italiano è eccellente e questi giovani sono promettenti. Quindi gli altri Paesi vanno avanti grazie alla materia grigia italiana e l’Italia rimane indietro“.
Cosa si può fare per invertire la rotta ed evitare la fuga dei cervelli in Italia?
“Il PNRR è sicuramente un’occasione e un gruppo di ricercatori ha fatto una interessante proposta al Governo, proprio in questa direzione: iScience. Si tratta di un programma per usare questi fondi per creare uno schema di finanziamento per singoli ricercatori, senza priorità̀ tematica (ogni campo della ricerca è ammesso) e basato solo sulla qualità del progetto. Già questo aiuterebbe molto a tenere i giovani in Italia”.
In quanto donna, fare carriera nella ricerca è stato più difficile?
“Tra i miei studenti gli uomini e le donne si equiparano e così i talenti. Certo più si sale nella gerarchia e nelle responsabilità e meno donne si incontrano. Credo la difficoltà maggiore sia nella combinazione vita di famiglia – vita da ricercatore. Ma non credo sia un problema solo nel campo della ricerca, purtroppo”.