Povertà e disuguaglianza, chiamiamo le cose con il loro nome

La povertà dilaga e comporta un lavoro di riconoscimento vero dei costi sociali della pandemia: chiamare le cose con il loro nome è necessario e ci da la speranza di superare questo momento

Solidarietà, equità, giustizia. Sono i valori fondanti di ogni comunità se la vogliamo definire civile. Negli ultimi anni, però, l’aumento della povertà e dell’esclusione sociale e la sensazione di maggior insicurezza per il futuro hanno fatto sì che si sedimentassero crescenti diseguaglianze e che combatterle fosse solo un argomento da intellettuali un po’ romantici e un po’ fuori tempo.

Poi è arrivata la pandemia e ha spazzato via ogni certezza e ci ha lasciato con il fiato sospeso i primi mesi e poi accasciati man mano che i mesi passavano. Formalmente centinaia di migliaia di persone non sono disoccupate, sono forse in cassa integrazione o con la partita Iva o sono persone che non si dichiarano in cerca di occupazione. Oppure la loro forma di occupazione è stata sospesa o si è ridotta.

Significa che sono diventate povere persone che fino all’anno scorso avevano un lavoro, oltre ai lavoratori in nero, che tutti prima della pandemia abbiamo affrontato come altro da noi.

Fiumi di parole e riflessioni, decine e decine di fior di ragionamenti, ma le verità sono molteplici e afferiscono tutte alla nostra nudità: è meglio guardare in faccia ciò che è, un mondo dove le disuguaglianze aumentano a vista d’occhio e le povertà ormai dilagano. Impreparati e colti di sorpresa, abbiamo realizzato che le povertà sono un fatto di tutti e che se non ci attrezziamo per bene rischiamo di svegliarci dall’incubo con una realtà ancor peggio dell’incubo stesso.

Buono che ci siano state indennità, bonus alimentari, sostegni vari – sia ben chiaro – ma è il momento di accompagnare una riflessione più ampia. Istat ci dice che sono 1 milione in più le persone in povertà assoluta, il tempo a disposizione è pochissimo per un ragionamento su un piano per il lavoro non straordinario ma straordinariamente contrario al precariato e ad ogni forma di non garanzia dei diritti? Sembrerà anche banale, ma slegare le misure di assistenza dalle politiche attive, insieme all’attivazione di un reddito universale che garantisca il diritto ai consumi essenziali, è un passo fondamentale verso la riduzione delle povertà.

Affrontando una volta e per tutte il fatto che le povertà non si risolvono mettendo paletti su paletti alle misure (tra l’altro spesso anche facilmente aggirabili) ma con servizi e misure che proteggano le persone che sono davvero in una situazione di disagio e le portino a poco a poco fuori, accompagnandoli, con politiche per il lavoro, per la formazione, abitative, per la salute pubblica. Al momento c’è il Comitato tecnico per la valutazione del reddito di cittadinanza, c’è l’annuncio di oltre 100.000 nuove assunzione nella PA, è allo studio la revisione del sistema degli ammortizzatori sociali, sono in arrivo importanti risorse sia dal Recovery Fund sia dalla programmazione europea del nuovo sessennio 2021/2027: un fermento importante, che necessita di una concentrazione politica e amministrativa assoluta e che se ben agito può davvero portare a un corso post pandemico positivo del nostro Sistema Paese. Lo seguiamo con attenzione e trepida speranza: abbiamo tutti bisogno di sapere che almeno per questo l’orribile virus è servito.

E una richiesta, basta con le parole che fanno show: furbetti, poltrone, divani, sono termini che sottendono quasi sempre ad una pochezza di pensiero e di strategia complessiva. Facciamo un gioco e sostituiamo furbetti con ladri, poltrone con responsabilità, divani con impotenza: chi prende soldi pubblici eludendo le regole non è un furbetto, è un ladro; chi smantella un governo in piena pandemia non è in cerca di poltrone, è un irresponsabile; chi dice che i giovani sono stesi sui divani, non conosce il senso di impotenza dei nostri giovani che alla fine sono costretti ad andare via.

Un lavoro va fatto, un lavoro di riconoscimento vero dei costi sociali della pandemia, di valorizzazione di quel che è stato fatto, di superamento di un linguaggio volgare e omologato, valicando il pensiero secondo cui il tempo può cancellare un ricordo terribile e ristabilire quell’equilibrio precario che definiamo il “prima”. Il “dopo” ci sarà, ma è bene riflettere ora sul “durante”, perché è sul durante che possiamo costruire un dopo migliore del prima.

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