Si fa presto a dire Cina. L’ascesa di XiaoMi come leader nella telefonia e del fast shopping su Shein ne sono fulgidi esempi: gli italiani guardano a Oriente, comprano a Oriente e cercano di emularne i modelli. Ma lo fanno senza conoscere la Cina, se non per sentito dire. A metà tra ascesa e regime, tra progresso e diritti negati, tra Coronavirus nei mercati rionali in cui si vendono pipistrelli e città iperconnesse dove si accede alla metro con la cartella clinica su smartphone.
Jun Qin è un cinese ormai trapiantato a Napoli e completamente inserito nel suo tessuto sociale. Non ama la politica, ma ama la cultura. Con la sua associazione Ciao Cina, sede a Forcella, si fa da sempre promotore dello scambio reciproco italo-cinese attraverso l’arte e la musica e, ormai da diversi anni, è protagonista dell’organizzazione del Capodanno Cinese di Napoli. Spinge per creare luoghi in cui la comunità cinese e quella partenopea possano interagire, conoscersi e integrarsi; in pratica, combatte per far sì che i napoletani smettano di guardare con sospetto i cinesi e i cinesi smettano di isolarsi nelle loro Chinatown sul territorio.
Qin, quanto i napoletani e gli italiani in generale sanno davvero della Cina?
“La consapevolezza sulla cultura cinese in Italia sta aumentando di anno in anno grazie alla crescita delle comunità cinesi, attraverso iniziative principalmente economiche e politiche come la “nuova via della seta”, oppure con accordi commerciali che vedono, ad esempio, l’ascesa dei siti e-commerce cinesi anche nel nostro Paese. A Napoli, in particolare, la conoscenza della cultura cinese si sta ampliando anche grazie al Capodanno cinese organizzato ogni anno da Ciao Cina, che è già giunto alla sua quarta edizione riscontrando molto successo presso il pubblico napoletano e cinese”.
Lei ha individuato la cultura come viatico per la conoscenza reciproca tra Italia e Cina. Qual è la risposta di entrambe le comunità?
“Quella cinese e quella napoletana sono due comunità molto antiche, entrambe piene di cultura, di tradizioni culinarie, di festività proprie e di folklore. Proprio grazie a queste somiglianze, ho sempre trovato naturale che le due comunità interagissero con gli stessi canali di comunicazione. Infatti sia la comunità cinese che quella napoletana partecipano con lo stesso entusiasmo alle nostre iniziative musicali, sociali, artistiche e culturali”.
La comunità cinese è forse quella più bersagliata dai luoghi comuni, come hanno dimostrato del resto le prime cronache agli albori del Coronavirus. Quanto è esteso il fenomeno e come se ne può uscire?
“Esistono effettivamente dei pregiudizi nei confronti della comunità cinese, che con il coronavirus sono stati acuiti. Questi sono nati sia a causa della chiusura delle comunità cinesi al loro interno, sia a causa della scarsa conoscenza da parte degli italiani della complessità e della vastità della cultura cinese. Sono fermamente convinto che a poco a poco, attraverso un lavoro di comunicazione e collaborazione, questi pregiudizi possono essere definitivamente sciolti”.
Un dialogo c’è, tra i nostri Paesi. Ma gli scambi sembrano coinvolgere più che altro i grandi player del mondo economico e finanziario, e poi in maniera meno incisiva il mondo accademico. Quale potrebbe essere la formula per portare su più livelli il dialogo tra le nostre culture?
“Un antico proverbio cinese dice ‘Prima di fare qualsiasi cosa, facciamo amicizia’. Questo proverbio ha sempre guidato il mio lavoro di mediazione qui a Napoli e indica che se c’è fiducia tra le persone, seppure appartenenti a culture e nazionalità diverse, si può costruire insieme qualsiasi cosa, in tutti gli ambiti. Penso infatti che creare fiducia tra i cittadini comuni e nelle relazioni quotidiane, sia la vera chiave per una relazione Italia – Cina che prescinda dai grossi player del mercato economico, accademico e politico, per giovare anche i piccoli commercianti, lavoratori, studenti, ristoratori, insegnanti ecc. in entrambe le comunità”.
(si ringrazia Angela Milano per la mediazione e la traduzione)