Se la povertà fosse una colpa, dopo il 2020 e la pandemia da Coronavirus la popolazione mondiale dovrebbe essere quasi interamente condannata. Come dimostra il Rapporto Povertà della Caritas dell’ultimo semestre 2020, infatti, solo in Italia l’incidenza dei “nuovi poveri” per effetto dell’emergenza Covid è passata dal 31% al 45%: “quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta”.
Nel resto del mondo, le cose non sembrano andare meglio: come riportato da Repubblica qualche tempo fa, “la pandemia di Coronavirus farà precipitare tra gli 88 e i 115 milioni di persone in più nell’estrema povertà quest’anno. E’ l’allarme lanciato dalla Banca Mondiale, secondo cui il numero di persone costrette a vivere con meno di 1,90 dollari al giorno potrebbe salire di 150 milioni di unità entro la fine del 2021. E’ la prima volta in oltre venti anni che il numero di persone in estrema povertà è destinato ad aumentare“.
In altre parole, l’onda lunga delle chiusure imposte dai lockdown, le limitazioni da zona rossa – arancione e le aperture delle attività economiche e commerciali a singhiozzo se da un lato hanno fatto sì che l’emergenza sanitaria fosse contenuta, dall’altro hanno condannato intere categorie di imprenditori, lavoratori, dipendenti, padri e madri di famiglia, giovani in cerca di occupazione, lavoratori atipici e non contrattualizzati, ad un’irrimediabile peggioramento delle condizioni di vita e, dunque, alla povertà.
Per un anno, infatti, i Paesi di tutto il mondo si sono fermati: in questo lasso di tempo, è scoppiata la bolla della “normalità” finora conosciuta, facendo scattare tutti i corto circuiti del sistema economico, imprenditoriale e lavorativo in cui eravamo immersi. Se il Covid ha potuto portare anche qualcosa di buono, ha tolto il velo di Maya nel quale eravamo caldamente avvolti per dimostrare che siamo tutti senza garanzie e a rischio povertà: i lavoratori, le lavoratrici, i giovani, i genitori, i professionisti del digitale, quelli della gig economy, quelli a chiamata, le partite iva, gli imprenditori. Tutti, nessuno escluso, ci siamo resi conto se esistono i diritti e le tutele sul luogo di lavoro, dovrebbero essere quantomeno applicate; che la linea che divide la “normalità” dalla soglia di povertà è solo questione di millimetri, ed è labile e facilmente accessibile.
Ad oggi, allora, risulta necessaria una riflessione che consideri ormai mutata la geografia del disagio socioeconomico, perché gli effetti della pandemia si delineano nella definizione di nuove sfumature di emarginazione e sofferenza che si aggiungono a quelle già esistenti, restituendo un tessuto sociale fortemente segnato dalle disparità e dagli effetti del liberismo economico. E di questo nessuno ne ha colpa, ancora meno chi è vittima di questo processo.
La voglia di stimolare una riflessione in tal senso arriva, nelle ultime ore, dal Parlamento Europeo: con la finalità di contrastare le emergenti disuguaglianze economiche e sociali e la povertà che ne deriva, è stata avanzata la richiesta di stabilire un salario minimo, condizioni eque per i lavoratori delle piattaforme digitali ed equilibrio tra lavoro e vita privata.
La relatrice Ӧzlem Demirel (La Sinistra, DE) ha sostenuto che: “L’UE è una delle regioni più ricche del mondo. Tuttavia, 95 milioni di europei vivono a rischio di povertà. Solo per questo motivo, abbiamo bisogno di un’azione urgente per garantire una vita libera dalla povertà per tutti. In tutta Europa, abbiamo bisogno di standard sociali minimi e di forti sistemi di sicurezza sociale. Abbiamo bisogno di salari e redditi che permettano una vita decente. Non dobbiamo permettere che gli interessi economici prevalgano sulla protezione sociale”.
Forse è proprio questa la base di partenza per la “nuova normalità”: perché se il lavoro serve per combattere la povertà, è altresì vero che l’esistenza di condizioni di lavoro non tutelate, precarie o a bassa retribuzione non potranno mai tendere verso i diritti costituzionalmente garantiti. E mentre gli eurodeputati esortano la Commissione Europea e i Paesi aderenti ad includere la prevenzione della povertà lavorativa nell’obiettivo globale di porre fine alla povertà nell’Unione, non possiamo far altro che essere consapevoli che siamo tutti inclusi nella lotta alla povertà.