In un’era definibile come tecnologica, in un momento storico in cui è in atto la cosiddetta trasformazione digitale, in un tempo alla ricerca incessante dell’innovazione, come possiamo rapportarci a questi temi che ci si presentano come “necessari” cambiamenti? E come possiamo contribuire a questi eventi per renderli profittevoli e in che termini?
Il cambiamento implica trasformazione e la trasformazione un adattamento prima che l’innovazione sia governabile. Ma cosa o chi avrà il beneficio di tutto questo e soprattutto, siamo in grado di sopportarlo e al tempo stesso supportarlo?
In un tempo non proprio remoto il lavoratore, quello che oggi viene definito come risorsa umana, quello forse più capace o più fortunato, viveva in una sorta di “equilibrio” aziendale in cui il compenso mediava un organigramma rigido, talvolta di forma “militare”. La psicologia dell’individuo al lavoro, ma anche al di fuori di questo, era ancora delineata da confini ben marcati in cui ci si riconosceva, confini tali da permettere al “dipendente” una vita famigliare dignitosa, una famiglia in cui era possibile andare avanti e prendersi qualche spazio con il lavoro di un singolo.
Dall’altro, al vertice dell’organigramma, “il capo”, l’imprenditore che come un generale guida il suo “esercito” al di sopra di tutti, con regole rigide e tiene il palco con discorsi di alto grado emotivo, un comunicatore impeccabile, un venditore straordinario, adorato dai manager, entusiasmante per le reclute, non lo stesso per chi ascolta da qualche anno.
Un equilibrio tenuto in piedi dal benessere ma soprattutto dalle distanze che talvolta sembrano insormontabili, motivo di rassegnazione.
Poi le distanze cominciano a diminuire, a ridursi inesorabilmente, non solo quelle del modello appena descritto: è il progresso tecnologico che avanza per opera di pochi visionari e menti tecniche eccelse.
L’innovazione è alla portata di tutti, sembra essere democratica, sembra persino rendere il merito oggettivo, ma il modello che dovrebbe governare il momento qual è? Non è così veloce a ridurre le distanze, ad adattarsi al cambiamento, a dar luce a quella che dovrebbe essere la missione 4.0.
Siamo ancora lontani: che cosa serve per arrivarci, che cosa serve per vedere quello che abbiamo lì davanti a noi, che ci può sicuramente migliorare e che invece sembra sfuggente? Anche se noi ci sentiamo “evoluti”, abbiamo completato percorsi didattici e professionali complessi, abbiamo coniato nuovi termini per definire le nostre competenze, dovremmo afferrare quel qualcosa.
Forse serve una crisi, forse serve che ci rendiamo conto che nonostante si sia elevato il nostro quoziente professionale e le distanze si siano ridotte, quelle affettive aumentano perché si è perso quell’equilibrio apparente tra lavoro e non lavoro, spesso sovrapposti.
Forse serviva una pandemia, eppure assistiamo ancora una volta a una governance – quella più alta in grado – che magari ancora non ha compreso che cos’è il bene comune, qual è “l’impresa”, nonostante la “meteora” ci abbia più o meno colpiti tutti.
E se così si comportano ai “piani alti”, come vogliamo che ci si comporti in quelli inferiori dove la distrazione indotta regna sovrana?
Chissà se riusciremo a sovvertire la regola del modello vigente; chissà se riusciremo, in questo momento fortemente “social”, a sovvertire il concetto del diritto al lavoro e quello di impresa.
Più che di impresa 4.0 vorremmo raccontarvi di una community 4.0 fatta di professionisti consapevoli che – forse – l’unico modo di raggiungere un nuovo equilibrio è quello di colmare il gap di profitto con una visione comune, che in qualche modo ci migliori, alla ricerca di un modello che rompa le barriere del business sfiorando la rete perfetta.
Una mission che dovrebbe essere guidata da una governance eterogenea che renda la visione trasversale, condivisa e di esempio; dove la corsa alla digitalizzazione non sia solo uno strumento fine a se stesso e un ulteriore elemento di distrazione, ma aiuti a sviluppare un nuovo modo di misurare il merito, superando il concetto classico di gestione del tempo, oltre il soggettivo, che tenga conto del valore rilasciato dal singolo individuo non solo per sé stesso ma per l’intera community al lavoro.